Che cosa succederebbe se l’agrimensore K. del “Il Castello” e il gestore di motel Norman Bates di “Psyco” confluissero in un unico personaggio, dandosi appuntamento davanti a un palazzo con la parvenza di essere a metà strada tra i due immobili delle rispettive storie? E se Pellicani – questo è il nome del protagonista del romanzo di Sergio La Chiusa, pubblicato dall’editore Miraggi -, fosse vestito quasi come un’icona magrittiana, in giacca e cravatta, e con una valigetta si presentasse in quell’ora serale in cui ogni strepito si è già consunto e le voci di dentro prorompessero all’improvviso?
“I Pellicani” è un teatro delle ombre in cui corpi archetipici si muovono inscenando l’abisso. Ciascuno di essi equivale a un enigma, a un’ipotesi mai suffragata. Incontriamo il suo autore, Sergio La Chiusa, che per questo libro ha meritato la “Menzione Speciale Treccani” al Premio Italo Calvino 2019, in cui è stato finalista, per addentrarci nella cosmogonia escatologica da lui creata.
1) Qual è l’etica del corpo (se ve n’è una) propugnata nel tuo romanzo?
Non so se “I Pellicani” propugni un’etica del corpo, ma non si può negare che il corpo sia al centro del romanzo, tanto che lo si potrebbe pure vedere come una cavia intrappolata nelle pagine e sottoposta a prove sperimentali per esaminarne le reazioni, e lì, nello spazio immaginario creato dalle parole, rinchiusa nei limiti angusti di un appartamento. Anzi, non il corpo, ma i corpi: un primo in movimento, e un secondo immobile, radicato al letto e in disfacimento, ed è come se si trattasse di corpi appartenenti a due epoche differenti: uno, il corpo del tempo nuovo, per così dire, che in un moto perenne, illusorio e inconcludente, disegna circoli sempre più stretti intorno allo spettro dell’altro, il corpo ammalorato d’un’epoca precedente, che come una specie di magnete nero lo attira irresistibilmente nella propria orbita fino a quando il corpo in movimento resta invischiato nel corpo immobile, prende il suo posto, coincide con la sua vecchiaia.
Si potrebbe forse dire che il corpo è la gabbia dalla quale nessuna fuga è ammessa e che ci rende tutti simili, sottoposti alla medesima parabola esistenziale, e in questo senso anche l’immobile fatiscente in cui entrano in contatto i Pellicani potrebbe essere visto come un grande corpo-gabbia, o, meglio, un corpo sociale in rovina – e se un’etica del corpo è rintracciabile nel romanzo va forse cercata nella presa d’atto di questa precarietà e impossibilità di fuga che ci rende tutti simili.
2) Se l’umano è una scimmia che ha perso l’istinto, Pellicani padre lo ha recuperato?
Più che una scimmia che ha perso l’istinto, vedo l’umano come una scimmia rivestita di complesse sovrastrutture culturali e tecnologiche, una scimmia trasformata e, in parte, dominata dagli stessi congegni e apparati, materiali e immateriali, che ha inventato, e che costituiscono quasi organi e arti aggiunti, prolungamenti della mente e del corpo. Ma l’istinto resta, e al fondo di tutto l’essere umano conserva la selvatichezza del troglodita, sia negli aspetti più positivi, di cura e accudimento della prole, per esempio, sia nei più feroci, di lotta per la sopravvivenza.
Pellicani “padre” (lo scrivo tra virgolette perché non è detto che si tratti davvero del padre; nel romanzo infatti il reale rapporto tra i due resta sempre dubbio, e il vecchio potrebbe essere un semplice surrogato di padre) non mi pare recuperare l’istinto, ma piuttosto progressivamente ridursi a solo istinto, regredire, perdere le sovrastrutture culturali cui accennavo, che tuttavia agiscono, anche se in modi sempre più nebulosi, fino all’ultimo, per esempio nelle vicende dei gatti e topi immateriali dei cartoni animati che gli s’inseguono nel cervello. D’altra parte la vecchiaia riporta all’infanzia, e la vita di mezzo, la vita produttiva, è come se svaporasse.
Sono sempre stato colpito dal modo in cui Beckett ha sostanzialmente espunto dalla sua letteratura ogni sorta di vita produttiva, concentrandosi invece nella messa in scena di vecchi dall’età imprecisata, impossibilitati a muoversi, memori però di lunghe passeggiate, moti perenni e inconcludenti: ricordi reali? imprese inventate per intrattenersi? non si può dire, perché il tempo s’annulla e tutto prende concretezza nell’atto stesso del dire – e credo che in fondo i Pellicani siano nipoti di quei personaggi beckettiani costituiti di flussi torrenziali di parole la cui vecchiaia trascolora nell’infanzia e nel nulla.
3) Cos’è il mondo di fuori per Pellicani figlio?
Il mondo di fuori entra con Pellicani “figlio” nell’immobile fatiscente, nell’appartamento, nella stanza da letto, nello spazio angusto degli interni in cui si muove. Per cui, a rigore, non esiste un “mondo di fuori” e un “mondo di dentro”. Il mondo di fuori, che è poi il mondo contemporaneo in cui vige la legge del mercato, è il mondo che ha formato Pellicani “figlio” e, prima di Pellicani “figlio”, l’autore e il lettore del romanzo, e quel mondo è come una seconda natura che Pellicani “figlio” si trascina con sé dovunque vada, anche tra le pareti del gabinetto dove di tanto in tanto si ritira per elaborare i pensieri più importanti. Il mondo di fuori è stato per così dire incorporato da Pellicani “figlio”, tanto che tutto il suo linguaggio ne risulta impregnato e la lingua scaglia fuori a ogni momento brani traboccanti di mondo – e l’appartamento, lungi dal rivelarsi un nascondiglio, un ricettacolo in cui trovare riparo, diventa invece una rappresentazione in miniatura del mondo di fuori.
4) La commedia degli equivoci, dove basta un abito per cambiare identità: quante sono le personalità di Pellicani figlio?
Pellicani “figlio” ha una personalità complessa, metamorfica e opportunista, incline cioè ad adattarsi alle situazioni e alle esigenze del momento, oppure, meglio ancora, ad adattare situazioni ed esigenze all’idea di realtà che risulta di volta in volta più comoda, più sostenibile, più in linea con i suoi scopi immediati.
Bisogna anche dire che certi cambiamenti d’identità, come quello cui tu alludi, sono solo apparenti: ruoli, maschere, travestimenti sociali che ingenerano equivoci di cui Pellicani “figlio” è nello stesso tempo artefice e vittima: benché si vanti della sua indipendenza intellettuale, ha infatti introiettato il sistema delle maschere sociali a tal punto da essere il primo a crederci, e, se non ci crede, confida comunque negli effetti che le maschere possono produrre sugli altri – e così indossare un abito dalla vaga parvenza manageriale e portarsi appresso una valigetta ventiquattrore gli pare sufficiente per calarsi nel ruolo dell’uomo d’affari e risultare credibile agli occhi del mondo.
Per complicare ulteriormente la personalità di Pellicani “figlio”, bisogna aggiungere che si tratta di un personaggio che, come dicevo sopra, include il mondo di fuori e, per così dire, il burattinaio che l’ha messo in scena e che lo articola.
5) Il sonno, il torpore, componenti essenziali del romanzo, sono come l’oblio e cos’altro?
Il sonno, il torpore sono come l’oblio, certo, e tutto il romanzo è percorso dal terrore della smemoratezza e della demenza senile. Ma si tratta anche d’un torpore più vasto, politico e morale, che è il torpore di una società, la nostra, che non sa immaginare forme nuove per uscire dalla palude in cui la sta trascinando una cultura che pone l’economia sopra tutti gli altri aspetti della vita. Il sonno, poi, è stanchezza, rinuncia, perdita di presa sulle cose del mondo: il cedimento che interviene prima che le verità essenziali si rivelino, si possano realmente penetrare, comprendere, afferrare, sicché le nostre esperienze restano sostanzialmente incompiute, interrotte.
Vorrei a tal proposito ricordare una delle scene della letteratura moderna che più profondamente hanno segnato la mia immaginazione: e cioè quell’episodio del Castello di Kafka in cui l’agrimensore K riesce, per caso e nel cuore della notte, ad entrare nella stanza di uno dei funzionari minori del Castello, tale Bürgel: ebbene, che succede? proprio nel momento tanto ambito, quando cioè ha finalmente la possibilità di interrogare chi ha presumibilmente accesso ai segreti del Castello, mentre Bürgel parla dal letto, l’agrimensore K sente la stanchezza sopraffarlo e percepisce Bürgel non più come una via per la conoscenza ma come un impedimento, una presenza che intralcia il sonno, e alla fine s’addormenta ai piedi del letto aggrappato con una mano a un piede di Bürgel che sbuca nudo da sotto la coperta.
Ecco: il torpore è la stanchezza, l’esaurimento fisico e mentale che non permette mai di raggiungere la verità più intima delle cose, e si tratta a un tempo d’un torpore intrinseco all’esistenza stessa e d’un torpore indotto dalla società, conseguenza d’un eccesso d’informazioni, comunicazioni, sollecitazioni.
6) A un certo punto della narrazione viene fuori il rapporto tra Pellicani figlio e Amleto: la farsa dell’esistenza. Qual è il punto di rottura?
Penso che il punto di rottura coincida con il passaggio in cui Pellicani “figlio” crede per un momento di vedere nello specchio il “padre”, invece di sé stesso, e nel “padre” non più un vecchio paralizzato da riabilitare, ma la china ineluttabile su cui s’è messa la sua esistenza, il letto di smemoratezza cui anch’egli è destinato: ciò, invece di tradursi in una vera presa di coscienza, lo porta a mettere in atto lo stratagemma più radicale e più fallimentare per fuggire dalla realtà: straniarsi, uscire da sé, deresponsabilizzarsi, per così dire: e come lo fa? raccontandosi in terza persona, trasformandosi in attore nelle mani d’un regista, e, anche, in personaggio nelle mani d’un autore, che è poi ciò che in effetti è, così che il suo tentativo di nascondersi mette paradossalmente in scena uno svelamento: ed ecco sopraggiungere il teatro, la maschera, la farsa dell’esistenza in cui ogni parvenza è maschera d’altro: incitato a interpretare il ruolo di Amleto, il principe di Danimarca arrovellato nel suo contraddittorio rapporto con lo spettro paterno e con il senso di responsabilità, il personaggio Pellicani, nelle mani di sé stesso nelle vesti di burattinaio-regista-autore, interroga da un’altra prospettiva l’enigma del rapporto tra padri e figli, tra individui e società, il peso opprimente dell’eredità, genetica e sociale, il complesso sistema delle maschere e dei ruoli.
7) Un elemento essenziale e inquietante, soprattutto all’inizio della storia, è la valigetta. Perché hai deciso di utilizzarla e cosa rappresenta?
La valigetta rappresenta una specie di prolungamento del corpo di Pellicani “figlio”, un po’ come il bastone per Charlot, che è probabilmente uno dei progenitori nobili di Pellicani, anche se il carattere edificante del vagabondo si è corrotto col passare del tempo in cinismo e cialtroneria. Si tratta insomma di un attribuito del personaggio che contribuisce a rivelarne la natura tendenziosa, ipocrita, intimamente contraddittoria: nel medesimo tempo protesi e impaccio del corpo, la valigetta viene infatti esibita a ogni occasione come simbolo di appartenenza a un mondo, quello degli affari, che egli critica con risentimento e dal quale è stato escluso.
La valigetta è però solo uno dei molti oggetti che popolano il romanzo, oggetti spesso disturbanti, perlomeno secondo la prospettiva di Pellicani, che crede d’indovinare ovunque potenziali minacce, trappole, complotti orditi ai suoi danni, sicché oggetti ordinari si manifestano d’un tratto come parvenze ingannatrici di qualcos’altro di misterioso, enigmatico, ostile.
Benché ci siano pochissimi personaggi, il romanzo risulta affollato di presenze, presenze per lo più oggettuali che formano una specie di inconscio fisico: il Pinocchio, il ranocchio, la sedia a rotelle, la sveglia, la bilancia pesapersone, la Simmenthal, i biscotti Plasmon, le mollette da bucato, il bulbo forato della doccia, tutti questi oggetti e altri ancora si presentano come maschere di qualcosa di latente, oscuro e minaccioso, e perciò, anche se il rapporto che Pellicani v’instaura ha il più delle volte esiti comici, tali oggetti risultano inquietanti, e possono anche essere visti nel complesso come fili d’un’immensa ragnatela tesa intorno alla nostra esistenza dalla società dei consumi, perfino in un luogo, la stanza d’un vecchio ormai improduttivo, che potrebbe sembrarne preservato.
Tutti questi oggetti sono dunque simboli, sintomi, indizi e agenti provocatori, capaci cioè di scatenare una serie di reazioni nei processi psichici del personaggio e nelle sue azioni, perché ogni volta che lo sguardo si posa su un oggetto, l’oggetto perde la sua innocenza, la sua neutralità, e suggerisce intenzioni nascoste, e ciascuno di essi risuona singolarmente come la nota sinistra d’un orchestrato complotto sociale, un rebus che Pellicani cerca invano di risolvere. Anche se, come accade in “Cosmo” di Gombrowicz, le cose sono indizi dietro i quali non c’è nulla, se non la realtà che l’osservatore va fabbricando.
8) Vi è un passaggio memorabile, disturbante e direi quasi probatorio, in cui il protagonista si espone con il lettore parlando di sé alla terza persona. Chi è Pellicani figlio quando questo avviene?
Come già dicevo sopra, credo che quel passaggio sia il punto di rottura, anzi il momento immediatamente successivo: il crollo, lo svelamento, l’acme della crisi del soggetto. Crisi che si ripercuote sulla forma stessa del romanzo, tant’è che Pellicani “figlio”, non potendo più sopportare il peso della realtà, l’immagine del suo volto pallido e macilento che rivela i primi segni della vecchiaia e pare sempre più simile a quello del “padre”, cerca la più radicale e illusoria delle vie di fuga: prendere le distanze da sé stesso raccontandosi in terza persona e rifugiandosi nell’invenzione romanzesca, come se lo spazio immaginario del romanzo rappresentasse l’ultima possibilità di fabbricarsi una realtà abitabile. La conseguenza però, almeno agli occhi del lettore, è per così dire l’esplosione dell’universo finzionale: i fondali crollano e dietro le quinte compaiono, ben illuminati, i meccanismi della macchina romanzesca, e il personaggio, mostrandosi personaggio e nel medesimo tempo autore, e, anche, attore e nel medesimo tempo regista, mette in scena un articolato sistema di specchi mobili che amplifica lo spazio e complica le parti, le rende incerte, mobili appunto, scivolanti l’una nell’altra, come a segnare una continuità tra realtà e invenzione, vita e teatro. Tanto che a partire da questo punto Pellicani “figlio” entra ed esce dal suo ruolo di personaggio senza mai più risolversi a stare una volta per tutte da una sola parte. Pellicani “figlio” insomma rende patente la sua identità multiforme e per così dire esibisce tutte le figure che contribuiscono a dargli un corpo, anche se fantasmatico: il personaggio, il narratore, l’autore, il lettore.
9) Qual è il confine tra sanità e patologia?
Non credo che si possano stabilire confini tra sanità e patologia. Innanzitutto perché i concetti di sanità e patologia mutano al mutare delle culture e dei punti di vista, e inoltre perché anche se ci atteniamo al senso comune esiste una vasta terra di mezzo tra sanità, che è poi adesione alle norme sociali vigenti, e patologia, una terra incerta e mobile in cui s’aggirano marginali e disadattati di varia natura e che mi pare tutto sommato la più feconda per osservare e raccontare le cose del mondo da prospettive insolite, capaci di farci percepire in modo nuovo consuetudini, comportamenti, prassi, tradizioni, costumi, leggi, protocolli che si considerano normali e che invece, visti da uno sguardo spostato, attraverso lenti differenti, possono apparire insensati e rivelare una loro natura arbitraria.
Da un punto di vista letterario m’interessano soprattutto proprio gli sguardi gettati sul mondo dagli eccentrici, dagli emarginati, dai disadattati, da coloro insomma che per varie ragioni, esistenziali e sociali, si muovono in quelle zone di confine di cui dicevo, che sono poi le terre purgatoriali, per così dire, in cui s’aggirano prevalentemente gli scrittori. Penso infatti che la letteratura sia una delle forme più salutari che assume il disadattamento e che l’invenzione letteraria intrattenga con la follia un rapporto privilegiato, tanto che il più straordinario personaggio della storia del romanzo occidentale, Don Chisciotte, è per l’appunto un folle, perlomeno secondo il senso comune, e in quanto personaggio che si fabbrica una sua propria realtà è colui che meglio di ogni altro riesce a contenere in sé lo spirito più profondo della letteratura e il suo compito: che non è la riproduzione del senso comune, ma la sua messa in crisi. E non è certo per caso che, ritrovata la ragionevolezza, Don Chisciotte perda la sua strabordante facoltà d’immaginazione, s’ammali e muoia nel suo letto, ormai inutile, come un normalissimo vecchio.
Pensa che tanto considero la follia un grimaldello per aprire serrature e accedere a luoghi sotterranei, scantinati popolati di rimossi, individuali e collettivi, che in certi miei megalomani deliri di progetti irrealizzabili, e peraltro mai cominciati, ho pensato perfino una volta di riprendere in mano l’idea giovanile di Canetti, purtroppo abbandonata, e cioè scrivere una “commedia umana dei folli”.
10) Quando l’essere umano ha cominciato a cadere nella trappola dell’io?
A dire il vero non so cosa sia esattamente l’io, e nemmeno di conseguenza se l’essere umano sia caduto nella sua trappola. Direi piuttosto che l’essere umano è intrappolato nel suo stesso corpo, e che il corpo è intrappolato nella vasta e intricata rete di rapporti sociali, culturali, economici, politici che ne condizionano i movimenti e lo sottopongono a modelli comportamentali cui conformarsi, e in questa trappola, che è una specie di edificio gigantesco dalle pareti falsamente trasparenti che risuona ininterrottamente di parole e immagini, è attraversato da un flusso continuo d’informazioni contraddittorie, così che col passare del tempo il corpo si trasforma in una specie di concentrato d’identità posticce, multiple e in attrito tra loro. Dove si collochi l’io in tutto ciò non mi è per nulla chiaro. Ma forse l’io è una finzione, una semplificazione, una pretesa illusoria di singolarità e dominio delle cose del mondo cui ci s’aggrappa per salvarsi dall’indifferenziato, dal caos.
11) Quale pensi sia oggi il rapporto dell’essere umano con la follia?
Potrei dire che per me, capovolgendo i termini, la follia è oggi nella normalità, cioè in un’adesione all’ordine vigente del mondo vissuta senza attriti, e nello stesso tempo nel suo radicale rifiuto.
Dietro la patina di buon senso e ragionevolezza della vita più normale s’annida sempre l’ipotesi, la possibilità della follia, soprattutto oggi che le nostre vite sono sottoposte a continue sollecitazioni: le oligarchie che maneggiano le leve dei poteri politici ed economici ci vedono infatti essenzialmente come produttori e consumatori, e in quanto produttori e consumatori siamo costretti a stare al passo con tempi sempre più veloci e rispondere con prontezza a modelli sempre nuovi di consumo e competitività.
Del resto, la nostra epoca pullula di produttori e venditori di prodotti chimici, calmanti e antidepressivi, droghe leggere e pesanti, e specialisti in psicologia, psichiatria, psicoterapia, singola, di coppia e di gruppo, insomma terapisti d’ogni genere, in molti casi improvvisati, incarnazioni moderne di superati cerretani e cartomanti, che sono il risultato di un disagio collettivo, di una reale e diffusa richiesta di sostegno psicologico, laddove a sanare il disagio non siano più sufficienti oggetti di consumo e normali attività di svago che costituiscono spesso surrogati di vita, modi per riempire spazi vuoti che non si sanno più sopportare.
Evidentemente lo spettro della follia serpeggia in tutti i settori di una società che mi pare per molti versi malata e le cui regole rappresentano paradossalmente la nostra normalità.
12) Perché l’uomo s’incaponisce a esistere?
“Non posso continuare, bisogna continuare, e allora continuo”, scriveva Beckett nell’ultima pagina di “L’innominabile”, una delle opere più radicali del novecento, un romanzo che per quasi duecento pagine rasenta l’afasia, e che a un certo punto s’interrompe, perché il libro deve pur finire, ma che potrebbe in realtà continuare come un mantra interminabile, come fosse la voce registrata su un nastro di tutta l’umanità. A dispetto dell’apparente nichilismo, infatti, i vecchi e i vagabondi di Beckett trovano nonostante tutto, o meglio, nonostante il nulla nel quale sono come radicati, motivazioni a raccontare, a dire: e perfino nell’inventario dei pochi miseri oggetti di casa, nella conta dei sassi custoditi in tasca, trovano inaspettati moti d’entusiasmo.