Autoritratto di un io

Autoritratto di un io

… un orecchio basta a sentire e due a non distinguere il mormorio dal rumore e il rumore dal fracasso e il fracasso dal terrore della Weltanschauung collettivamente subita….

Denunciare le verità del mondo per mezzo di una nevrosi estatica durante un volo Berlino-Parigi. Due donne, due sorelle le cui loquacità si sovrappongono per contrasto: un delirio esteriore e uno interiore. La protagonista, la maggiore, non parla, eppure è un flusso di pensieri quello che il lettore riceve senza che possa difendersi, perché le cose accadono principalmente nella nostra testa e il pensiero concretizza. Questa la modalità narrativa di Noémi Lefebvre nel suo “L’autoritratto in blu”, tradotto da Susanna Spero e pubblicato da Safarà editore, un chiasma concettuale fatto di incessanti legami con la filosofia, la politica, la musica di Arnold Schönberg e la pittura, con particolare riferimento a un quadro dello stesso compositore, da cui origina il titolo del libro.

In un’ora e mezza di volo si sviluppa la magnifica equivalenza tra forma e idea dell’opera di Lefebvre, in un movimento percettivo circolare che ricorda quello di Mrs. Dalloway, solo che le ripetizioni musicali dodecafoniche schönberghiane costituiscono la partitura letteraria che l’autrice destreggia come una perfetta composizione per parole.
Se si pensa che il miracoloso equilibrio delle parti avvenga per mezzo di una storia dalla trama semplicissima, snella, quasi inesistente, si comprende la genialità della scrittrice francese.

La protagonista, con un matrimonio fallito alle spalle, nel 1942 ascolta parlare la sorella violinista, tenendo aperto sulle ginocchia il carteggio tra Thomas Mann e Theodor W. Adorno e ripensando all’incontro con un pianista, avuto al Kaiser Café del Sony Center di Berlino.
Durante questo monologo a due la storia personale di ognuna diviene storia collettiva e le diverse implicazioni psicologiche assurgono a grande metafora del pensiero occidentale.

Noémie Lefebvre è politologa ma ha ricevuto anche un’istruzione musicale che le ha consentito di destreggiare la materia schönberghiana con sicura efficacia espressiva, permettendole di ideare il libro in dieci anni e di scriverlo in sei mesi.
La musicalità del testo, la sintonia alchemica tra le parole, gli accostamenti apparentemente incongruenti tra le situazioni, al contrario liberano il senso della sua crisalide e creano nuove significanze.

Di particolare impatto narrativo il tema della vergogna intesa sempre come sentimento costitutivo della vittima che non ha saputo resistere alla Storia, e non come atteggiamento restitutivo e politico di chi ha strumentalizzato vite e coscienze collettive.

Non aver scritto niente di cui mi debba vergognare costituisce il fondamento della mia esistenza morale”, dice Schönberg alla radio nel 1931 e in questo si fa avanti lo spettro del nazismo e dell’arte “degenerata”.

Comporre musica al solo scopo di compiacere il pubblico non era nelle intenzioni del maestro austriaco così come non lo era nemmeno nell’idea del pianista incontrato al Kaiser Café. In questo concetto vi è l’opposizione all’educazione alla felicità collettiva, rifiutata come dispositivo sociale velleitario atto solo a minare il valore della resistenza personale.

… l’educazione alla felicità collettiva fa di noi delle ragazze prive di resistenza e fondamentalmente influenzabili nel bene e ancora più spesso nel male….

L’identità nazionale è strettamente legata alla memoria ma da essa sembra prendere le distanze quando avanzano le dittature.

Ed è nella solitudine del compositore che sembra risiedere la resistenza a un mondo inaccettabile. Se si prende come riferimento questo punto d’osservazione, la solitudine del compositore fa da rinforzo a quella di tutti i personaggi della storia. Ciascuno di essi è come una raffigurazione di Hopper e il loro rifiuto al compromesso è impossibilità a risolvere il dissidio con la realtà.

… il mormorio dei nostri contemporanei […] non dice niente sul mondo nel suo insieme ma ti mormora una coscienza limitata del mondo….

“L’autoritratto in blu” è un’opera che cambia la lingua di chi legge. La sua splendida traduzione, spirale verso l’abisso, è esecuzione di una meta-scrittura in cui il significato di ogni parola diviene sorgente e occasione conoscitiva ad altissima tensione drammatica.
Quello che lascia interdetti è il principio del declino come finale, come rarefazione dell’io.

… non so più dire niente, non possiedo più la lingua, solo la musica, ancora, e della musica solo le linee di fuga…”, da cui poi, avvistata la terra dopo il volo, è un nuovo inizio.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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