Elogio e compianto della solitudine

Elogio e compianto della solitudine

Conosciamo August Strindberg come drammaturgo. I suoi spettacoli in Italia hanno avuto interpreti d’eccezione, registi come Mario Missiroli, Giorgio Strehler, Gabriele Lavia e Mauro Avogadro. Il teatro strindberghiano, a primo acchito di parola, è invece un compendio d’azione e tensione che mantiene il personaggio/attore in una condizione di quiete attiva. Eppure gli esordi non furono eccezionali e la rappresentazione de “Il padre” non fu ben accolta dalla critica, tanto che l’autore scrisse una lettera e inviò l’opera a Émile Zola. Il contenuto della risposta fu poi utilizzato per la prefazione al testo in francese nel 1894, anno della prima rappresentazione teatrale in Francia.

La letteratura di August Strindberg si compone però di una sterminata attività comprendente anche la saggistica, il romanzo, la poesia, la fiaba e la critica letteraria, tutta pervasa dalle contraddizioni e i tumulti di un’anima indocile, compressa tra la voglia di riscatto (Strindberg era figlio di un commerciante e della domestica di famiglia), l’acuta osservazione della società e la ribellione ai suoi stilemi e l’opposizione feroce alla società delle lettere, imbalsamata e priva di nervatura semantica.

August Strindberg, all’ombra di Nietzsche e Balzac, contrappone l’individuo alla società che osserva da una postazione privilegiata di maestro supplente in una scuola di Stoccolma e poi di precettore in famiglie private, attore, regista, allievo telegrafista, amanuense nella Biblioteca Reale, reporter parlamentare, redattore presso una rivista assicurativa, studente in Medicina.
È l’enorme ricchezza di esperienze, unita a un carattere ribelle e ai reiterati spostamenti geografici a dettare la continua ricerca e l’idiosincrasia per le convenzioni, che verranno fuori con furore soprattutto nei romanzi.

Ho sempre desiderato avanzare, elevarmi, e quindi ho sempre avuto una sorta di diritto supremo di oppormi a chi mi ha voluto trascinare verso il basso, ed è per questo che sono rimasto solo.

Nel 1903 Strindberg scrive “Solo” per l’editore Bonnier, un romanzo intimo in cui l’autore si apparta, crea una zona grigia tra sé e il resto della società. Il testo torna in Italia grazie alla pubblicazione presso Carbonio Editore, con la traduzione e l’introduzione di Franco Perrelli, specialista del teatro scandinavo e contemporaneo.
Si tratta di un romanzo in cui il protagonista e l’autore si sovrappongono creando un effetto straniante in cui Strindberg sembra confessarsi e al tempo stesso dar luogo a una forma creativa della propria biografia.
Osservare a distanza, non investigare, piuttosto valutare e affrancarsi dagli esseri umani, incapaci di vivere nella realtà, abili solo a rappresentarsela per continuare nella farsa quotidiana.

La solitudine è persuasione, crasi per sottrazione dell’elemento sociale. Vivere consapevolmente una condizione per cui tutto è nuovo perché conosciuto.

La solitudine s’intona bene con la morte apparente della natura, per quanto diventi talvolta troppo pesante. Ho nostalgia degli uomini, ma in solitudine sono diventato troppo delicato, ho l’anima scarnificata e mi sento così viziato dalla mia libertà di dirigere i pensieri e i sentimenti che a malapena posso sopportare il contatto con le altre persone; già ogni sconosciuto che mi avvicina mi soffoca con la sua temperatura spirituale che sembra invadere la mia.

Dietro questo passaggio vi è una visione del mondo e una dichiarazione d’intenti. Strindberg costruisce per sottrazione, chiarendo l’incompatibilità tra sé e il resto della società.
Lo scenario entro il quale vibra la sua speculazione è Stoccolma, quieta e intima, pervasa da luci di rimando e personaggi minimi che sostanziano il suo soggiorno metafisico.

Si è irretiti in una riflessione turbinosa che ha sapore di segretezza e trasparenza al tempo stesso. Tutto ciò che il protagonista osserva non suscita pensieri banali ma ricorrenze dell’anima che conosce e riconosce ogni cosa perché prossima alla trascendenza. Ogni casa incontrata apre a speculazioni, a istantanee di destini, a solitudini condivise.

Mai ho visto, come in quella stanza, condensate la tristezza, la noia di tutto, la stanchezza del vivere.

Fino ad arrivare ai confini della città, dopo i quali si apre la certezza della sconfinatezza.

Strindberg compie un’operazione topografica che rasenta la vertigine. In questo richiama alla mente il premio Nobel Patrick Modiano, quando ciascuno dei personaggi rivelati costruisce una sua topografia nello spazio e nel tempo ripercorrendo strade che non esistono più. Vi è un’esattezza millimetrica nella delineazione degli ambienti cittadini, una ricerca di perfezione del ricordo che è esigenza di ritrovamento, di trafugare la memoria affinché tutto risulti nel qui e ora.
Senza dimenticare che la più bella delle città poggia comunque sulle fognature, anche quando chi passeggia non ne ha coscienza.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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