Verso l’origine di tutto

Verso l’origine di tutto

La possibilità della scoperta è un impulso atavico quanto oscuro verso la conoscenza. Ha sedotto gli uomini, si può dire che sia nato con il nomadismo. Valutare quanto un essere umano nella sua vita si avventuri per terre diverse dalla propria rivela la predisposizione all’alterità, all’incontro, all’ascolto.

Patrick Leigh Fermor fu un viaggiatore instancabile e dedicò buona parte della sua vita all’esplorazione della Grecia. Personaggio bizzarro, avventuroso era nato a Londra l’11 febbraio 1915 e prima che morisse venne definito come il più grande scrittore di viaggi vivente della Gran Bretagna. Antesignano di Bruce Chatwin, che ne fece il proprio punto di riferimento e di studio, Leigh Fermor abbandonò presto la casa dei genitori per mettersi in viaggio. Aveva esattamente diciotto anni quando, prese pochissime cose e le “Odi” di Orazio, e l’8 dicembre del 1933 si mise in cammino per esplorare l’Europa, arrivando sino in Turchia.
Hitler si era insediato da poco al potere, le sorti del mondo sarebbero cambiate, ma il giovane viaggiatore percorse a piedi il vecchio continente affascinato dalle culture e dai personaggi che sono descritti nei suoi libri e che sono stati racchiusi prevalentemente in una trilogia, il cui ultimo testo è rimasto incompiuto alla morte dello scrittore. Rispettivamente “Tempo di regali” (2009 trad. Giovanni Luciani), “Fra i boschi e l’acqua” (2013 trad. Adriana Bottini, Jacopo M. Colucci) e “La strada interrotta” (2013 trad. Jacopo M. Colucci), tutti pubblicati dall’editore Adelphi, costituiscono un territorio letterario in cui il romanzo, il reportage e il memoir s’incontrano con la forma del trattato antropologico e l’itinerario di viaggio propriamente detto.

Patrick Leigh Fermor visse pienamente il suo tempo. Compiendo i suoi viaggi a piedi entrò nella vita quotidiana dei personaggi delle sue opere e da essi articolò il suo vizio di vivere. Si distinse nella cattura di Heinrich Kreipe, generale al comando della 22esima fanteria a Creta. Lo scrittore guidò l’esercito anglo-ellenico dopo che i nazisti nel 1941, durante l’”Operazione Merkur”, avevano occupato l’isola. In realtà il piano prevedeva la cattura di Friedrich Wilhelm Mūller, detto il macellaio di Creta, ma quest’ultimo lasciò l’isola prima del rapimento e così Leigh Fermor ripiegò su Kreipe, avvalendosi anche dell’aiuto di un altro scrittore e viaggiatore britannico, Bill Stanley Moss, autore di best seller degli anni ’50.

L’episodio fu narrato sia in un libro dello stesso Moss, “Brutti incontri al chiaro di luna” (Adelphi 2018 trad. Gianni Pannofino), il cui adattamento cinematografico, “Colpo di mano a Creta”, vedeva Dirk Bogarde nei panni di Patrick Leigh Fermor; sia in un libro di Leigh Fermor mai pubblicato in Italia dal titolo “Abducting a General: The Kreipe Operation and SOE in Crete”.

Ma è dall’ottanio della copertina di “Rumelia” (trad. Daniele V. Filippi), ultimo titolo del viaggiatore britannico, che Adelphi rinnova i suoi rapporti con lo scrittore.

Con la fotografia di Joan Leigh Fermor che immortala in bianco e nero le rovine di Delfi, l’autore racconta di una Grecia che non esiste più e lo fa attraverso uno stile elegiaco, molto vicino alla mitica esemplarità della lirica. A stupire è il florilegio di personaggi incontrati e tutti in odore di mito, così ancorati alle salde ancestralità del territorio. Chissà se esistono ancora in qualche zona remota della Grecia.

Rumelia è per definizione “terra dei romani” e si estendeva nella Grecia del nord, “dal Bosforo al mare Adriatico e dalla Macedonia al golfo di Corinto”. Oggi non si trova su nessuna mappa ma il suo richiamo riecheggia dalle pagine del libro e porta il lettore a un tempo in cui i rapporti tra uomo e natura e uomo e uomo erano totalmente diversi.

Ancorato alla saggezza intima dei luoghi e alle usanze dei popoli che via via incontra, Leigh Fermor scrive il suo libro negli anni ’60 e avverte i lettori già nell’introduzione circa la scomparsa di buona parte dei personaggi e dei cambiamenti definitivi del territorio. Ciò che era scoperta allora, oggi viene frequentato alla stregua di una gita di massa.

L’arcano che ammantava di mistero ogni esperienza dello scrittore britannico è andato perduto. Non resta che immergersi nella sospensione delle descrizioni insite nel volume, abbandonandosi soprattutto ai personaggi che Leigh Fermor cristallizza nelle loro autenticità mitiche. Sembra di sentire voci e odori, temperature e persino di provare l’estasi immensa davanti alle Meteore, immani alture rocciose sulle quali venivano costruiti monasteri tuttora visitabili, ma che in quel tempo si potevano raggiungere soltanto attraverso delle carrucole, dando al viaggiatore l’impressione di essere sospesi tra le nuvole.

Forse, se si è fortunati, si può ancora scorgere un sarakatsano ed essere invitato nella sua tenda per un pasto e per udire uno dei canti tipici. La figura ieratica e nera del sarakatsano, pastore seminomade che non toglie mai il suo vestito di lana fino alla morte, è densa di fascino e storie che si tramandano nei secoli.

Le aree selvagge in cui abitavano, la loro mobilità e la capacità di scomparire li mantenevano fuori dalla portata degli esattori ottomani, e salvavano i ragazzi dagli arruolamenti forzati e le ragazze dagli harem.

Il termine turco per indicare gli antichi greci è yunan, cioè “ioni” e dunque la Grecia è Yunanistan, da qui nasce la dicotomia tra il termine “elleno” e “romaico”.

Elleno evoca le glorie dell’antica Grecia; romaico gli splendori e le pene di Bisanzio.

Leigh Fermor pone al lettore il dilemma elleno-romaico nel terzo capitolo del libro e la sua digressione sul tema continua sino alla compilazione di uno specchietto con le caratteristiche riferibili all’uno e all’altro. Passando dal teatro d’ombre di Karagiozis, la romaicità più assoluta viene incarnata da Creta, l’ultima a essere abbandonata dai turchi che l’avevano assediata sin dal 1669. La “leventeiá”, il gusto universale per la vita, è la caratteristica delle sue genti, disposte a vivere pronte a tutto.

Creta fu tra le poche parti dell’Europa occupata a non essere lacerata, dopo la liberazione, dalle contese civili. Le differenze politiche vennero accantonate.

E ancora Missolungi, città in cui il poeta George Byron abitò e morì nell’aprile 1824; l’incontro tra Leigh Fermor e la pronipote del poeta per il recupero di un paio di scarpe appartenute al bisnonno.

Solo fra i greci si era sentito felice. Voleva morire per la Grecia, ed era pronto a servirla fino allo stremo delle forze.

Krávara, i suoi mendicanti e i suoi venti villaggi, con un linguaggio segreto, “ta boliárika”, le bottiglie di ouzo e l’avgotáracho (bottarga di muggine), infine Barbas Elias, un vecchio saggio che racconta dei kravariti.
Su tutto aleggia un’atmosfera perduta, un luogo nel tempo e nello spazio in cui lo spirito ellenico e quello romaico sembrano simboleggiare l’apollineo e il dionisiaco nietzschiani.

Patrick Leigh Fermor ci dice ancora oggi che l’Olimpo è l’eco del cielo, un’Arcadia, e Rumelia la sua incarnazione ancestrale, una spirale verso l’origine di tutto.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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