Si potrebbe dire della musica quello che vale per la letteratura e cioè che oggi importi di più l’ascoltatore-lettore/acquirente dell’esperienza dell’assoluto e che lo spirito dell’utopia è morto. Se questo enunciato dovesse apparire ingenuo basti considerare il mancato sforzo di cogliere la totalità nell’arte musicale contemporanea.
La musica per l’ascoltatore, per ciò che vuole, per ciò che lo conforta e non per ciò che lo istiga allo scontro col mondo, al rapporto con l’Essenza. È la mancanza di visione sonora, di una vera e propria critica dell’ascolto. È come pretendere di visitare New York e “vederla”, conoscerla attraverso ciò che è stato già visto, già sentito, già rappresentato. Il filtro utilizzato è quello dei decenni di film, telefilm, serie tv e soap opera, icone cinematografiche e musicali, moda e cibo, una cultura importata interamente a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e che nell’ipnosi televisiva degli anni ottanta ha rivoluzionato il nostro modo di percepire le cose falsandole in un confronto tra quotidiani inconciliabili ma che devono risultare. New York non si può vedere per quella che è. Resta un miraggio, un’oasi che non esiste. Il nostro occhio ha operato una mistificazione accostando il bene dell’uomo a quello degli Stati Uniti come se si equivalessero.
Il già rappresentato è l’usato sonoro di cui parla Manlio Sgalambro nel suo “Contro la musica”, uscito per la prima volta nel 1994 ad opera della casa editrice De Martinis & C. e appena ripubblicato da Carbonio Editore, impreziosito da una prefazione di Elena Sgalambro, figlia dell’artista poliedrico che fu filosofo, poeta, paroliere.
Proprio nella prefazione l’uomo Sgalambro viene fuori come un essere in perpetua distanza dai suoi simili, sempre proteso sul limitare del suo altrove, studioso appassionato e rigoroso, incline alla metafisica, padre anticonformista ma prezioso compagno di giochi.
Il filosofo parla della musica come potrebbe essere la letteratura, un luogo empirico per un dispositivo che si rivolge a orecchie che non possono più contenerlo. Le immagini del suono e della parola coincidono perché condividono lo stesso limite contemporaneo. La questione a monte è metafisica. Il suono si fa voluminoso per farsi udire, la parola si sovraccarica per attrarre ma siamo comunque nel possibile e non nella rinunzia al mondo, vero e unico atteggiamento dell’uomo saggio.
Il ‘rubacchiare’ in filosofia, come in musica o in letteratura, è la forma attuale di rapporto in cui fondamentale è diventata l’imitazione non l’originalità deprecata.
Dato che tutti i suoni sono stati già uditi si dovrebbe osare un nuovo tipo di ascoltatore. Sgalambro afferma che il nuovo tipo di ascoltatore debba ascoltare l’ascolto. In questo converge con Citati: “Oggi la lettura tende a diventare una specie di orgia, dove ciò che conta è la volgarità dell’immaginazione, la banalità della trama e la mediocrità dello stile. Credo che sia molto meglio non leggere affatto, piuttosto che leggere Dan Brown, Giorgio Faletti e Paulo Coelho”. Allude dunque alla rinuncia, all’in sé che amplifica il giusto rapporto con l’arte.
Lo stesso Sgalambro sostiene: “Ascolta la musica e poi dalle fuoco”. Perché l’arte non dovrebbe affezionarsi alla vita, non dovrebbe dare una mano all’affermazione del mondo, piuttosto dovrebbe riscattarsi e in questo la posizione del filosofo sembra accostarsi a quella di Carmelo Bene, quando dice che “l’arte è sempre stata borghese, idiota, mentecatta, soprattutto cialtrona e puttanesca e ruffiana. L’arte deve essere incomunicabile, deve solamente superare se stessa”.
Perché a fronte di grandi orchestre, interpreti osannati, brani scaricabili e scaricati, la mole di suono prodotta non ha creato nessuna teoria di sé, nessuna immagine che si possa imprimere nella Storia. Un unico grande convolvolo avvinghiato alla vita, alla fama, all’effimero, che non permane.
“Quando termina l’esecuzione, gli strumenti l’hanno dispersa, sfiniti, nell’aria”.
La musica non ha ethos, non colleziona principi di valore, comportamenti etici, pensieri che debbano necessariamente ricondurre al bene. La musica è un’avventura conoscitiva esattamente come la letteratura, come l’arte in genere. Non può ridursi a una promessa di spasso, al divertimento, all’ovvio. Ha necessità di prendere rapporti con l’illogico, l’irrazionale, il difforme, la metafisica.
Il trionfo odierno della musica purchessia indica il bisogno di felicità a zero costo.
L’ethos tanto aspirato non è della musica ma dell’ascolto, ancora una volta la posizione del fruitore è fondamentale a determinare la visione nuova. L’arte è sempre stata lì, a testimoniare il compito di lasciare le cose “incontrastate e potenti”.
Perché qualsiasi cosa voglia l’autore, la musica segue il suo corso. Tutto ciò che viene dopo è solo ascolto. E chi ascolta veramente “ascolta la fine del mondo”.