C’è una sequenza filmica in “Citizen Kane” del 1941 (in Italia “Quarto Potere”), scritto, interpretato e diretto dall’allora ventiquattrenne Orson Welles, che rivela la verità nel momento stesso in cui essa viene perduta per sempre, quasi a sostenere l’illusione evanescente del vero come soluzione finale e l’incapacità degli uomini a cibarsene, a realizzarla, a custodirla.
La verità, dunque, come rivelazione della sua fine si può intravederla, non è dato trattenerla e il suo destino è lontano dall’umano. Forse la soluzione sta nell’avvicinarsi quel tanto che basta a inquadrarla, ad avvertirne la potenza, ma fino al punto da non lasciarsene sopraffare, nel caso di “Citizen Kane” bruciare, come la scritta Rosebud, enigmatica scintilla della storia narrata, che andrà distrutta con lo slittino dell’infanzia del protagonista nell’ultima sequenza del film, ritenuto un oggetto inutile.
L’impossibilità di scavare a fondo nella vita di una persona, ma forse potrebbe essere attribuito all’arte il tentativo di farlo, di approssimarsi al nucleo sfuggente, non l’occhio umano quindi, ma un cineocchio, uno strumento visivo aumentato.
“la
fotografia
è
la
verità
il
cinema
è
la
verità
24
volte
Al secondo”.
Sono le parole che vengono pronunciate da Bruno Forestier, il personaggio principale del film di Jean-Luc Godard “Le petit Soldat”, stampate sulla copertina del numero di una rivista del settore, La Cinématographie française del 1960, che viene consultata da Gabriel P., protagonista del romanzo di Raphaël Meltz dal titolo “24 volte la verità”; quest’ultimo uscito per Prehistorica Editore nella traduzione di Alice Laverda.
Ed è proprio nel testo di Meltz che l’inseguimento della verità trova una sua mimesi nelle vicende di Gabriel, cineoperatore francese nato nel 1908 e vissuto per oltre cento anni e di suo nipote Adrien, nato nel 1975, un giornalista specializzato in articoli su tecnologie digitali, poco convinto di ciò che fa.
Raphaël Meltz costruisce due dimensioni temporali per strutturare la sua opera in un montaggio alternato: un capitolo con una lettera dell’alfabeto e un luogo, a rappresentare il presente e la vita di Adrien, precede un capitolo con un numero di progressione e una data a rappresentare la vita del nonno. Alfabeto e numerazione si alternano senza mai sovrapporsi, due tempi in cui tutto si sostanzia di due movimenti opposti: quello di Gabriel a partire dal 1913 che rappresenta un’ascesa e quello di Adrien dagli anni ‘70, che è una discesa. Il primo personaggio ama il suo lavoro, ne scopre incanto e opportunità attraversando il XX° secolo; il secondo invece detesta la sua attività e preferirebbe scrivere e pubblicare.
Sono condizioni esistenziali che l’autore riesce a caratterizzare avvalendosi della narrazione in terza persona per i capitoli numerali e della narrazione in prima persona per i capitoli alfabetici.
In entrambi però irrompono i flussi di coscienza, senza preavviso, ma fanno parte integrante dei dialoghi senza che questo riduca la comprensione del testo, anzi, impreziosendone l’arredo letterario con approfondimenti sui personaggi, sul loro modo di pensare e di agire.
Ventiquattro capitoli più uno aggiuntivo.
Per la pellicola cinematografica è stato deciso, all’avvento del sonoro che imponeva una standardizzazione della velocità di scorrimento, che si sarebbero filmate ventiquattro immagini al secondo, in modo che il suono uscisse così com’era stato registrato. Standard. Poi è arrivata la televisione, l’immagine video che, invece, è stata fissata a venticinque immagini al secondo.
Quella venticinquesima immagine ha cambiato il tempo del cinema.
Il cinema non è mostrare ciò che si fa (perché quello lo vedete tutti i giorni su F.) ma ciò che non si fa.
Gabriel vivrà tutto il ‘900, lo racconterà senza che il suo strumento sia utilizzato seguendo dei propositi morali o ideologici. Dietro alla macchina da presa penserà esclusivamente a filmare, perché il cinema deve rispondere a se stesso e le immagini dovrebbero essere conformi alla volontà dell’autore.
La mia cinepresa non era mai stata altro se non un oggetto. Un oggetto a cui non conferivo altri poteri se non quello meccanico. Certamente non un potere morale. Non sto dicendo, ovviamente, che avevo ragione. Ma è così che ho fatto. E non c’è nemmeno da stupirsi: non sono tanti gli operai che pongono quesiti morali ai loro strumenti.
In questa dichiarazione vi è un principio oggi caduto in disuso, visto che il linguaggio filmico, come quello letterario, utilizzano le categorie morali per comporre e smerciare.
Ma se è vero che “non tutte le rivoluzioni politiche generano per forza una rivoluzione delle immagini”, al cinema, come più in generale all’arte, l’ideologia non si addice. Il parto creativo d’idee e forme deve rimanere svincolato.
Potete scegliere di dirigere il vostro sguardo dove volete. Nessuna macchina da presa sarà più forte del vostro sguardo.
Perché filmare è un’angolazione da cui guardare e Gabriel ha guardato ma non ha vissuto.
È sempre una questione di sguardi, come quello di André Malraux la sera del 7 dicembre 1933, al conferimento del Goncourt, presso la sede delle Edizioni Gallimard, quando si troverà di fronte due operatori, uno della Gaumont e l’altro della Pathé. Il Gaumont si posizionerà di fronte allo scrittore per avere la migliore prospettiva, Gabriel per la Pathé sarà costretto a mettersi in diagonale rispetto al tavolo. Eppure Malraux sceglierà di rivolgersi alla macchina da presa di Gabriel.
Perché si è liberi di decidere dove dirigersi.
Lo comprenderà Adrien, che “ogni anno a febbraio vivo giorni paralleli, giorni in cui esercito il mio mestiere di giornalista, il mestiere privo d’immaginazione che mi dà da mangiare, e che m’impedisce allo stesso tempo di dedicarmi al romanzo”, quando nell’unica scena in cui incontrerà il nonno, in un memorabile passaggio di testimone, deciderà di vivere la sua vita.
Queste parole, per permettermi di chiudere il libro, il romanzo che non è un romanzo, e che cerca di rispettare la verità di quello che è successo a Gabriel P. tra la sua nascita nel 1908 e la sua morte nel 2009.
La verità di una vita, la verità di uno sguardo, la verità di una scelta, la verità di un secolo, ripetute 24 volte al secondo nella forma dell’Arte.