“Si vive ancora, oggi”

“Si vive ancora, oggi”

È la storia di una rinuncia, di una memoria, di una mancanza.
Ci sono tempi in cui è necessario dimenticare e altri in cui il racconto si fa sinodia misterica ogni volta che lo sguardo sfiora il cielo. Sulla terra degli uomini è gravoso indagare ma dall’alto la prospettiva cambia. Dall’alto la distanza è un nuovo punto di partenza per cominciare a raccontare.

Montse è ormai novantenne e parla con la figlia, la stessa Lidye Salvayre, scrittrice del testo. Ha ricordi labili e gesti remoti che sembrano riferirsi più a un tempo passato che al presente. Osserva il tetto, lo sguardo sembra perso e invece è denso d’immagini, d’istantanee segrete e imponderabili. Lo sguardo può andare laddove i suoi vecchi piedi non la condurrebbero. La dimensione a cui Montse si rivolge è relegata nella sua intimità indistinta e sfocata per tutto il resto, ma viva e palpitante per un evento in particolare.
Se la vita ha sottoposto la protagonista del romanzo a una privazione, è avvenuta nell’estate del 1936, unico dato certo e lucido di un’esistenza vissuta nell’accettazione, mai nell’entusiasmo salvifico.

A partire dalla giovinezza in famiglia, si snoda una serie di rimembranze costituite da aneddoti simbolici, che le due traduttrici Lorenza Di Lella e Francesca Scala gestiscono con superba dimestichezza dando al testo, pubblicato dall’Asino d’oro Edizioni e finalista Modus Legendi 2017, una forza antica ed evocativa.
Poco prima dello scoppio della guerra di Spagna e della dittatura di Franco, Montse comincia a comprendere che la bontà “conosce la notte degli uomini e la supera, o perlomeno tenta in ogni modo di superarla”, anche quando gli eventi sembrano deporre per la sconfitta. Non è ancora libera in un mondo che si prepara alla violenza bellica, eppure si sente tale.
Quale altro mezzo più potente del sentimento amoroso potrebbe innescare questa condizione? Montse ama, non ha fatto altro nella sua vita. Montse osserva, agisce, ignora i pericoli, adombra la debolezza, impara il sacrificio. Montse si lancia all’attacco di una società che non capisce le istanze di una donna. Montse difende la pace del cuore prima ancora che quella dello Stato. Montse è al fianco del fratello José, un uomo che si nutre di onestà e ideali per un mondo giusto.
Tutto pur di conservare un ricordo del ’36.

Ma se di mattina, il suo cuore è una polveriera pronta a esplodere, di sera José sogna a occhi aperti una realtà favolosa e promette alla sorella Montse un mondo in cui nessuno sarà mai più servo né propiretà di un altro, in cui nessuno alienerà mai ad altri quella parte di sovranità che è sua di diritto (frase presa in prestito da Solidaridad Obrera), un mondo giusto e bello, un paraíso, al solo pensiero ride per la felicità, un paradiso in terra in cui si potrà amare e lavorare liberamente e allegramente.

Lydie Salvayre usa una lingua mista tra il francese, il castigliano e il catalano (è proprio qui che Lorenza Di Lella e Francesca Scala danno il meglio di sé) quando fa parlare la madre. È convinta che non ci sia altro modo per esprimere il suo vissuto che altrimenti perderebbe la forza impetuosa della combattente per amore.
Spinge sul pedale dignitoso della resistenza a qualsiasi pietismo, sacrifica il sentimentalismo per innalzare la bellezza radiosa di uno spirito alla continua ricerca di senso. Trovarlo significa guardare con occhi nuovi al presente e forse perdere definitivamente l’identità, una parte del Tempo.
In questa impasse si gioca il destino di tutti. In questo frangente in cui stare dalla parte dei padri, delle madri e delle tradizioni può voler dire cancellare la Storia di un popolo. E schierarsi dall’altra, dalla parte di chi cambia a costo d’immolarsi, può costituire una via nuova, giusta, prospera; una società fondata sulla speranza di legalità e libertà.


Partì la mattina del 20 gennaio 1939, a piedi, con Lunita in una carrozzina e in mano una valigetta nera in cui aveva messo due lenzuola e qualche vestito per la figlia. Con lei c’erano una decina di donne e bambini. Raggiunsero la lunga schiera di persone che fuggivano dalla Spagna, scortati dall’11esima divisione dell’esercito repubblicano. Fu quella che venne definita con un certo pudore la Retirada. Una colonna interminabile di donne, bambini e vecchi che si lasciavano alle spalle una scia di valigie sfondate, di muli morti distesi sul fianco, di poveri stracci abbandonati nel fango, di oggetti d’ogni sorta che quegli infelici si erano portati dietro in fretta e furia quasi fossero preziosi frammenti di casa loro e poi avevano abbandonato lungo la strada quando l’idea stessa di casa era svanita del tutto dalle loro menti, quando di fatto qualsiasi pensiero era svanito dalle loro menti.


Il destino è un nugolo di mosche pronte a volare in molte direzioni. Ciascuno scelga la propria come fece Montse, quando camminando e guardando la propria bambina stretta contro il petto disse “Non piangere, figlia mia”.
Si vive ancora, oggi.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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