Il silenzio della libertà

Il silenzio della libertà

Poche sono ormai le condizioni, in letteratura, in cui la libertà esercita il suo potenziale conoscitivo. Nel già accaduto sembra non esserci più scampo, invece è proprio lì che si annida il materiale prezioso di una storia.

A patto di convergere sul totale affrancamento dalla retorica, nella scrittura contemporanea del nostro paese vige una dittatura della scontatezza, dove cronaca e autobiografismo da autofiction sanciscono patti di belligeranza con la ricerca. La letteratura paga lo scotto al mercato della lingua e delle idee mainstream. Ciò che manca e che potrebbe essere lascia il posto a ciò che c’è e dovrebbe essere.

Ainis in uno dei suoi saggi sosteneva che non c’è libertà senza uguaglianza, ma forse, è nell’eccessiva applicazione anodina di questo principio, nell’indiscriminata incapacità di discernere le differenze che i limiti della letteratura si rendono visibili.
Se c’è limite non c’è sconfinamento e l’arte letteraria è in quel superamento dei limiti della misura, nella consapevolezza di una Storia che procede per frammenti, salti e che in un momento del passato riesce a trovare la congiunzione felice col presente.

“Parlo di ciò che manca e della grazia di ciò che c’è”, scrive Carmen Pellegrino nel suo ultimo libro, “Dove la luce”, appena uscito per La Nave di Teseo e candidato al Premio Strega 2024, facendo riferimento al rapporto che la Storia continua a intrattenere col presente, sempre meno gravido d’attesa e sempre più lontano dalla traiettoria esistenziale delle vite individuali dei destini minimi.

Sorretta da una fulgida necessità di ricerca, innervata da uno spirito lirico d’altri tempi Pellegrino opera in una consapevole volontà conoscitiva che prende le mosse da una figura che rappresenta il più possibile la scomparsa, Federico Caffè e, tramite questa, attua ciò che la letteratura spesso dimentica, trovare qualcosa d’importante e di rimosso, ricucendo i rapporti con l’autofiction, che diventa necessaria, non decorativa, attraverso la sua stessa vita di donna e di scrittrice che si fa personaggio vicario del libro.

“Noi agli uomini liberi non siamo abituati”, continua l’autrice, in questo avendo ben appresa la lezione sciasciana e sviluppandola attorno alla questione dei padri e dei figli, facendosi essa stessa veicolo di emancipazione stilistica.

L’ombra dei padri, l’ombra di Caffè – economista tra i più lungimiranti, che auspicava un tipo di società che mirasse all’uguaglianza dei punti di partenza, ispirato da un’etica dei valori radicata nella trascendenza, con una cura particolare nei confronti degli ultimi, auspicando una cooperazione internazionale con basi di partenza egualitarie e preoccupandosi della conseguenze di un mercato autofunzionante ma senza regole equanimi – dicevo prima, l’ombra di Federico Caffè sulla persistenza dei figli, che di quelle lezioni hanno dimenticato i principii e di cui Pellegrino si fa portavoce, nella consapevolezza salda di una visione weiliana.

Ed è proprio a Simone Weil che l’autrice si rifà nelle sue riflessioni sulla trascendenza e sull’affratellamento della comunità umana. Ecco che Federico Caffè diventa il Professore, a diretto contatto ideale con la filosofa, in una illuminante corrispondenza filosofico-morale.

Il tratto della scrittura di Pellegrino è proporzionale alla portata delle sue idee, schietto, schierato più verso la demistificazione che la sublimazione, nell’intima certezza di una lingua che sappia affrontare l’ombra e la rinuncia piuttosto che patinarsi di finta poesia.

Anche questa volta la scelta di Pellegrino è di luoghi abbandonati della memoria, della giustizia e dell’utopia, che nei suoi libri precedenti erano fisici, ma che in questo, in particolare, assurgono a territori dell’anima.
Dal suo giardino paterno, “tutto ingombro di nonsense” al giardino segreto “connesso con tutto ciò che è nel mondo e fuori di esso”, dove Carmen Pellegrino intuisce “che non siamo dei pezzetti di materia lanciati nel nulla, slegati e vaghi, ma parte di qualcosa di più grande e complesso” , e che da Caffè passa per Giorgio Ambrosoli, le stragi di Ustica e Bologna, la nostra storia politica e sociale recente, Carmen Pellegrino con “Dove la luce” fa della narrativa un luogo abitale, un territorio accessibile per significanza e incanto. Ciò che manca alla vita è presente nelle sue parole, nel tratto catartico di ogni mancanza che si fa arte.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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2 commenti
  • “Nel tratto catartico di ogni mancanza che si fa arte” . Grazie per questa recensione e per la frase conclusiva che evoca il senso stesso della letteratura, nonché di molte vite che del trascendere la mancanza hanno dovuto farne un’arte del vivere stesso.