Visione e coscienza dell’aberrazione

Visione e coscienza dell’aberrazione

Tra il romanzo come sfida alla coscienza e il romanzo come conferma identitaria Franz Bartelt, con il suo “Colpo gobbo” (Le jardin du Bossu – Gallimard Editore 2004), tradotto da Ezio Sinigaglia e Giuseppe Girimonti Greco per Prehistorica Editore, struttura un testo massimalista, politicamente impegnato, stilisticamente iperbolico, sentimentale e tenacemente crudele.

Abbiamo dovuto aspettare vent’anni prima di poterlo leggere in italiano, colpa di una macchina editoriale lenta e ingiusta, che premia i numeri a scapito del valore, delle voci irriverenti e difformi. Nel caso di Bartelt (precedentemente in Italia per Feltrinelli con “Hotel del Gran Cervo” che gli è valso in Francia il Prix Mystère de la Critique), originario dell’Eure, una regione al nord della Francia, e attento osservatore delle tipologie umane e delle loro idiosincrasie, sarebbe stata una grave perdita. Precoce nella scrittura di romanzi, comincia a comporre già a 13 anni, lettore appassionato di gialli e polizieschi di cui la madre era avida lettrice, Bartelt, una giovinezza divisa tra la sopravvivenza e l’arte, diviene presto drammaturgo, poeta e feuillettoniste.

La sua è una visione cupa e scorretta, traslata nell’umorismo per vocazione e impegnata nell’evidente tensione drammatica che sfocia nel paradosso.

Non sfugge a questo meccanismo “Colpo Gobbo”, feroce per accadimenti e intrigante per l’uso della lingua, diretta, tagliente, a tratti colloquiale e che rasenta il gergale. La traduzione rende efficacemente ritmo e stile, fatta com’è di trovate rigorose e che si concedono, allo stesso tempo, all’umorismo sottile dell’autore, in una convincente conduzione ricca di acume e passione.

La storia si muove nei meandri del noir, ma mescola il giallo al pulp, con note sentimentali che accompagnano il lettore in una trama ai confini del buonsenso.

In effetti il protagonista, ladro, alcolista, ma con saldi principi di sinistra, uno di quei disperati colti che sanno di poesia e di cinema, di letteratura e di politica, s’imbatte in un ricco e sinistro signore, apparentemente ubriaco, proprietario di un appartamento di lusso, che lo sequestra e ne fa il suo cameriere tuttofare.

Due origini differenti, due condizioni sociali agli antipodi, questo è un romanzo di contrapposizione di classe, di divergenze politiche e umane, di scriteriata e scellerata abiezione morale, in cui a far da padrone è un gioco delle parti in un teatro dell’assurdo.

Non vi è limite alla degradazione dei due uomini che si affronteranno ciascuno a modo proprio, in un corollario di ricatti, minacce e astuzie.

Nella cantina di casa, Jacques Cageot-Dingue (cassa-pazzo: due sostantivi chiave), il ricco sequestratore, tiene nascosti sottoterra i corpi dei maggiordomi che hanno preceduto il nostro protagonista in questa folle prigionia.

Non mancheranno i colpi di scena e le grandi intuizioni sulla vita e sulla morte, sempre al limite del grottesco.

Aveva fatto bene a puntarmi addosso la canna di una pistola. Sotto una simile minaccia, il sapere ti entra in testa senza fatica. Sono sicuro che i ragazzini delle elementari, se le maestre gli facessero studiare le tabelline con una pistola alla tempia, diventerebbero in quattro e quattr’otto dei prodigi del calcolo a mente.

Ma a coincidere con l’assurdo è l’identità vera o presunta dei due che, loro malgrado, si ritroveranno a scoprirsi diversi, inquietanti e pronti a tutto.
È dunque una commedia degli orrori degna del miglior palcoscenico teatrale, in cui i personaggi si fronteggiano misurando la disumanità di ciascuno. Il romanzo della libertà violata ma anche quello della libertà rinunciata. Chi è il vero prigioniero fra i due? Chi è la vittima? Verità e falsità si mischiano talmente tanto da rendersi quasi irriconoscibili, come ogni principio, ogni logica, ogni aberrazione.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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