Vi sono momenti in cui mi sembra d’essere vicino a uno spiraglio di verità, di cogliere una trasparenza simile a un significato intero. Mi concentro, in questi casi, e arresto ogni movimento. Sono come sul punto di abbattere una cortina alla cui base mi sto scavando, a forza di unghie, un passaggio.
Carmelo Samonà, Fratelli
Fratelli, pubblicato lo stesso anno della Legge Basaglia, è l’esordio di Carmelo Samonà.
Fu un caso editoriale: elogiato da personalità come Ginzburg, Risset, Manganelli, Giuliani, Pedullà, Minore, Cecchi, Raboni e da parecchi altri, venne interpretato a ragione come un microcosmo apertamente polisemico, attraverso chiavi di lettura anche molto curiose.
Samonà, oggi, è quasi sempre assente dai manuali di letteratura e dalle antologie (anche da molti dei libri che si concentrano esclusivamente sugli anni Settanta). Dopo più di quarant’anni, nonostante le diverse edizioni, Fratelli resta un’epifania. E francamente non capisco perché. Molti temi del breve romanzo sono di una contemporaneità quasi sfacciata: alterità, incomunicabilità, emarginazione, alienazione; rapporti umani dunque, oltre che familiari. Tutti discorsi affrontati da una prospettiva originale, con una scrittura estremamente curata e allo stesso tempo, in un certo senso, quotidiana, al di qua delle abitudini culturali di ciascuno dei lettori, allora come oggi.
Lo stile così rigoroso e piano di Fratelli è quello di uno scrittore che prima di votarsi al romanzo è stato ispanista, visitatore di letteratura ispanoamericana (Borges su tutti, sulle pagine di «la Repubblica»), comparatista en passant e saggista eccentrico: un ricordo su Elsa Morante e la musica, una riflessione su Fausto Coppi. Per me insomma leggerlo è stato un toccasana, e se esistesse farei rientrare Fratelli senza problemi in un canone alto della letteratura italiana contemporanea.
Il primo dei suoi tre romanzi, intervallati da poche altre prose, è molto breve e supera di poco le cento pagine. Se l’interesse fosse banalmente contenutistico, si potrebbe presentare in una frase: Fratelli racconta la vita quotidiana di un uomo e di suo fratello malato. Non è così. Stanno lì a provarlo le ambiguità strutturali, la cura stilistica, l’uso così calibrato del punto e virgola, la riflessione sulla natura conoscitiva della letteratura e altro ancora, per esempio l’assenza di una soggettività incerta, l’importanza del corpo come linguaggio, la serialità rituale delle azioni, la loro rarefazione, il disorientamento temporale, la fallacia della memoria del narratore.
Samonà appartiene a quella generazione di intellettuali, la stessa di Calvino e Pasolini, per cui l’atto della scrittura ha una certa dignità gnoseologica:
Voglio dire che è un problema serio, che si presenta al critico di oggi, quello di attingere alle sorgenti autentiche del suo lavoro, di ritrovare le parole esatte, le motivazioni profonde che giustificano il suo ruolo di vicario di un’antica attività dell’uomo.
Di fronte a Fratelli d’altro canto emergono da una parte l’educazione profondamente umanistica dell’autore, un’idea alta di letteratura, dall’altra la lucidità di suggerire una certa (imprendibile) visione del mondo. Un giusto equilibrio tra tradizione e innovazione, insomma, e già questa sarebbe una ragione sufficiente per riscoprirlo. In barba alle leggi del mercato, e contro l’assurda visibilità data a tutti quei libri che definire dannosi sarebbe generoso.
Fratelli è un libro per chi ama rileggere e si concede il piacere di imboccare strade sbagliate, di compiere passi falsi. Più si legge e più si scopre, ogni volta è un altro romanzo. Perché ha avuto così tanto successo appena quarant’anni fa e ora, invece, se lo merita solo qualche sparuto buongustaio? Tra una novità in libreria e l’altra, per induzione, bisogna domandarsi anche questo. Come conciliare il tempo e la calma necessari a leggere bene con la grande quantità di nuove proposte. E per chi vuole sul serio quella del lavoro – tanto meno quello editoriale – è una scusa che non sta in piedi.
Ma torniamo a una manciata di decenni fa. Un professore di letteratura spagnola che per una vita ha studiato i classici, un critico letterario che conosceva i rituali della tribù strutturalista, a cinquantuno anni esordisce come narratore e piace. Convertirsi alla narrativa dopo anni da studioso forse è un grosso rischio, e peraltro la letteratura italiana è piena di professori che, talvolta ai confini dell’imbarazzo, un giorno si svegliano scrittori. Eppure Samonà è di un’altra pasta. A scatola chiusa, difficilmente un suo saggio e Fratelli sembrerebbero scritti dalla stessa persona. Non è un caso che nessuno o quasi, tra coloro che hanno recensito il romanzo, abbia citato come fonti opere della tradizione spagnola o di quella ispanoamericana. Da narratore che si innesta in un certo tipo di immaginario, quello della tradizione umanistica, Samonà ha interiorizzato l’insegnamento dei grandi maestri del modernismo e trattato temi tuttora al centro del discorso culturale.
Il romanzo si apre così:
Vivo, ormai sono anni, in un vecchio appartamento nel cuore della città, con un fratello ammalato. Nessun altro abita con noi, e le visite si fanno rare. Ultimi rimasti di una famiglia che fu numerosa al tempo della mia giovinezza, ci muoviamo, ora, in una complicata gerarchia di silenzi.
Samonà non contestualizza Fratelli in uno spazio e in un tempo definiti: in una storia dove impera il presente, come se per il narratore tutto ciò che è avvenuto prima del suo racconto, a meno che non riaffiori compromesso dalla memoria, sia quasi completamente dimenticato, al lettore non viene concessa la rassicurazione di un contesto. Già dall’incipit si entra in un microcosmo a sé. Da un punto di vista anche linguistico e grammaticale, alla prima persona di un verbo al presente («vivo») seguono un’indicazione temporale alquanto vaga («ormai sono anni») e il riferimento a una città senza nome. Il narratore scrive «ora», quindi non si limita alla normale separazione tra il tempo della stesura e quello della storia, e rende implicita una distanza tra alcuni degli eventi che sta per raccontare e il momento, successivo, di un ricordo al presente. A poco a poco invecchierà: più il lettore si approssima alla fine del libro, più si troverà di fronte un protagonista stanco e debilitato. Come per il tempo, neanche per lo spazio Samonà mette il lettore a suo agio. Chi narra d’altronde suggerisce di immaginare i giardini e la città, i luoghi che abitano i protagonisti, come una propaggine, quasi una sineddoche, dell’appartamento.
Pagina dopo pagina, è un susseguirsi di obiettivi mancati e speranze tradite, di crisi della ragione e di dolorosa solidarietà. Il narratore impara a perdere senza arrendersi, in un rapporto alternativamente brusco e affettuoso, e per comunicare dovrà ricorrere ad altri linguaggi. I fratelli si muovono infatti in una «complicata gerarchia di silenzi»; alcuni sembrano domande, altri rimproveri, rammarichi, desideri. Le frasi del fratello gli sfuggono. Alla parola si sostituiscono i loro corpi, attraverso cui interagiscono secondo un criterio di prossimità e di lontananza. I rituali quotidiani (mangiare, vestirsi, tentare di uscire dall’appartamento) e i giochi teatrali non potrebbero esistere senza la loro capacità di abitare, immaginando, uno spazio domestico virtualmente illimitato. Fughe, rincorse, sparizioni sono discorsi che i fratelli fanno muovendosi.
La lingua di questo scrittore è fortemente connotativa; il registro, a tratti, medio; l’eredità linguistica e culturale dei grandi classici viene quasi dissimulata. Questa prosa così posata sfocia in uno stile piano: punti e virgola, verbi e aggettivi sembrano stare sempre al posto giusto. Se si leggesse ad alta voce, forse ogni punto fermo potrebbe equivalere a un respiro. Fratelli come storia di un forse, o di un quasi. È attraverso le commoventi illusioni del narratore che il lettore sperimenta l’impossibilità di conoscere pienamente l’altro. Le sue sconfitte gli svelano che senza il fratello non sa esistere. Anche le espressioni quotidiane, i connettivi asettici e le particelle apparentemente più insignificanti, in un discorso che se fosse una figura retorica sarebbe forse una grande ellissi, fanno capire che chi racconta per la sua ricerca sta sacrificando tutto.
Attingendo dal suo un vocabolario privato, Samonà lima indefessamente lo stile della narrazione, gioca sull’ambiguità strutturale di alcune parole, dissemina il suo romanzo di piccoli vacillamenti e di esitazioni. Il fratello si svela senza parlare. Da parte di Samonà nessuno sfoggio di erudizione. Le espressioni quotidiane – della quotidianità di un uomo tuttavia molto colto, forse a sua volta un uomo di cultura – vengono filtrate da una sorta di setaccio stilistico, perché l’autore evita la mimesi di un parlato medio e colloquiale, rifiutando così il generale impoverimento delle risorse linguistiche. Samonà, in un’intervista, definisce la sua scrittura «falsa magra», mentre i recensori di allora hanno coniato un numero sorprendente di aggettivi: «prosa sciolta e curatissima […] lingua ricca di sottintesi, rovesciata, deviata, in cui hanno tanta parte i silenzi»; «stile di fermezza impeccabile»; «[romanzo] spoglio, sino alla nudità, e tutto accentrato su un’unica situazione esistenziale [il rapporto tra i fratelli, la ricerca dell’altro] […] romanzo rigorosamente scandito nei ritmi narrativi, simile a una laica monodia», scritto con «rigore», «nitore» e «fervore»; una lingua «dotta, mai ricca»; scrittura che ha «il ritmo lento e avvolgente di una sospesa meditazione», «asciutta eppure penetrante»; «libro denso di pathos, di psicologia, di pietas, stilisticamente raffinato, denso di suggestioni e di significati».
Un romanzo di lingua, quindi, più che di trama. E però forse sarebbe troppo comodo interpretare Fratelli sulla base di un effetto di realtà che peraltro entra in crisi, anche se sulle prime al lettore sembrerà di imbattersi in una storia dalla trama più o meno prevedibile. Analessi e prolessi, allusioni, metafore, simboli, tutti gli stratagemmi stilistici rendono Fratelli un testo costellato di angoli ciechi apertamente ambigui. Ciò che prova il narratore relazionandosi giorno dopo giorno al fratello non sembra granché dissimile, perché la malattia rappresenta l’elemento indefinibile di una realtà sconosciuta.
Fratelli, insomma, come libro sulle difficoltà intrinseche a ogni rapporto umano. La malattia, un’«incognita permanente», determina ogni momento dell’esistenza dei due personaggi. Samonà racconta la storia di uno scacco. Il narratore, dalla prima pagina, nonostante le sue strategie razionali per scoprire il fratello siano destinate al fallimento, persevera, si ostina, vuole dominare un’alterità che gli si sottrae ogni giorno. Il lettore non sa di che malattia si tratti, come si chiamino i fratelli, dove vivano. Al di là dell’evanescente apparizione di una «donna col cane zoppo» (per Manganelli, immagine di una «totalità linguistica») i protagonisti sono soltanto loro.
Tutto il romanzo verte sulla tensione umana e conoscitiva del narratore verso suo fratello. Ciò che gli sta intorno perde d’importanza, e la malattia si trasforma in una vera e propria ossessione esistenziale. È indubbio che per Fratelli, all’apparenza una storia realistica e verosimile, la rappresentazione dello spazio e del tempo, entrambi sovvertiti, sia strutturata anche su elementi fantastici. Le coordinate spazio-temporali della loro vita non seguono una linea retta e sono determinate dalla logica altra di una malattia che rovescia il principio di non contraddizione. Come scrive più volte il narratore, per esempio, un momento potrebbe corrispondere all’eternità, l’appartamento a tutto il mondo. A volte si passa dall’immaginazione alla realtà e viceversa senza accorgersene. La vita razionale del narratore dipende da un altro che è contemporaneamente emissario e oggetto di questa malattia, alleato e nemico (in una delle metafore belliche del libro, i fratelli si scoprono «avversari» e ingaggiano «piccole guerre di posizione»).
Siccome il fratello si esprime soprattutto attraverso linguaggi non verbali, il “tu” del dialogo non esiste se non filtrato dall’io del narratore. Le sue congetture determinano un’estrema rarefazione del discorso e i rari scambi di battute perdono forse la natura mimetica che convenzionalmente gli viene conferita. Il lettore sa solo ciò che il narratore vuole che sappia, non ha insomma un altro punto di vista per conoscere questo rapporto. Le azioni del fratello malato, però, fondano la storia di entrambi. L’identità e l’alterità sono interdipendenti: il narratore, scoprendo l’umanità della malattia, rivoluzionerà l’idea che ha di sé stesso. Il fratello esercita quella che lo stesso Samonà ha definito come un’«egemonia di ritorno», perché la sua sarà sempre di più una passività soltanto apparente. Conoscendo per sommi capi la trama essenziale del romanzo, si potrebbe pensare che in un rapporto convenzionale il sano accudisca il malato e gli imponga una determinata quotidianità, un insieme di permessi e divieti stabiliti unilateralmente e una volta per tutte. Invece, i suoi metodi si rivelano inefficaci, le strutture razionali si disgregano dalle fondamenta. Un’ambiguità capillare pervade i pensieri e le azioni, i tempi e i luoghi della narrazione. Fratelli racconta una storia esattamente contraria: il narratore sa che per conoscere il fratello bisogna pensarlo altrimenti, perché il sé non esiste senza l’altro. Quando si accorge che l’asimmetria di potere incomincia a vacillare non demorde, si accanisce, continua a fallire, e non per questo smette di ricercare. Questo è prima di tutto un romanzo dell’altro, polisemico e ambiguo, più che dell’io, perché il fratello malato esiste, ha una sua soggettività forte e nient’affatto subalterna, determina l’esistenza del narratore.
Samonà, a differenza di molti altri, racconta dalla prospettiva razionale di un narratore che si crede sano e rifiuta di indovinare cosa prova chi soffre di un disturbo psichico. Ecco lo scarto fondamentale che compie rispetto alla narrativa italiana che lo precede: la malattia mentale, la follia, non comunicano più attraverso un linguaggio fintamente folle, o malato, inventato di sana pianta da uno scrittore che si diverte a immaginarsi un po’ pazzo. Scrivendo Fratelli, Samonà offre un’alternativa più rispettosa a chi vuole una trasfigurazione letteraria del rapporto tra la sanità e la malattia senza cedere alla tentazione in cui cade chi, strumentalizzando questa dialettica, crea artificiosamente un linguaggio visionario e allucinato, sperimentale da un punto di vista stilistico e lessicale, per raccontare il mondo dei sani.
Samonà non vuole creare a tavolino un personaggio malato – la grande forza del suo romanzo dipende soprattutto da questo radicale cambio di paradigma conoscitivo. Leggerlo comporta anche porsi certe domande e insieme rinunciare alla pretesa di trovarvi una risposta; riscoprirlo significa temprare le facoltà critiche attraverso cui si fa esperienza del mondo, anche al di là della letteratura, meditando sull’eterna dialettica tra sé e altro. Bisogna salvarlo dalla dimenticanza, impegnarsi affinché i suoi «suoni flebili e opachi», come scriveva Francesco Orlando, riaffiorino dal silenzio. Invito chiunque a darmi ragione, o a contraddirmi: purché legga Fratelli.
Non avevo mai pensato a Samonà come lettore e cultore di Borges. Ma rileggendo adesso il bellissimo incipit di “Fratelli”, il legame di pare evidente.
Sto rileggendo Fratelli dopo 46 anni. Ho 70 anni e sono di Trieste. È un libro che mi aveva scolpito cuore e mente. E rileggerlo ora riapre domande. La ringrazio di quanto lei ha scritto su Fratelli e sul suo autore. Lo penso anch’io.