La crepa sottile della bellezza

La crepa sottile della bellezza

Come nel capolavoro di Thomas Mann, “La morte a Venezia”, in cui delirio e passione sono i tasselli dell’ossessione per la bellezza di un giovane adolescente, che scombussola l’ordinaria esistenza di Gustav von Aschenbach, nobile scrittore tedesco cinquantenne sospeso tra la rigida disciplina della forma e l’espressione delle sue pulsioni, così nell’ultimo romanzo di Ezio Sinigaglia “Grave disordine con delitto e fuga” (TerraRossa Edizioni), si consuma la medesima antitesi nella vita del protagonista, l’ingegnere De Rossi, la cui quotidianità viene stravolta dall’arrivo del “magnifico Jimmy”, un fattorino diciassettenne alle sue dipendenze, un giovane Tadzio che lo costringe fuori dal culto della forma e lo catapulta nel perseguimento del desiderio.
Perché tutto in questo direttore aziendale, sino a quel momento, era stato assorbito dal rigore del lavoro, dalla salda e pervicace convinzione ingessata di uno svolgersi ordinato di azioni, un’impalcatura che è una gabbia trasparente che l’apparire di Jimmy scardina.

Se la sublimazione degli istinti vitali attraverso il lavoro in von Aschenbach si rivelava un modo per mantenere un equilibrio, in De Rossi si prefigura da subito come un’impasse tra realtà e desiderio.


L’ingegnere De Rossi era quindi determinato a insistere nel desiderare, pur di fronte all’inconsistenza delle probabilità di mettere in atto.

Ma per amore della bellezza De Rossi vede trasformare il lieve disordine iniziale in un convulso turbinio di soffocante intensità, spingendolo sul limitare della follia. Lo scarto profondo si traduce in un sovrapporsi di azioni mentali più veloci di ciò che accade intorno, alimentando uno stato di agitazione e di sopraffazione.

Sinigaglia fa del dissidio interiore del protagonista un’iperbole di stile. La narrazione è fluida, attivata da una generosa concessione sintattica che restituisce della frase tutta la carica espressiva, un diorama di vivida attesa che poggia sull’avverbio modale, ripetuto ossessivamente, la sua forza rappresentativa.

La nevrosi dell’ingegnere De Rossi è resa ancora più disturbante dalla placida fruibilità con la quale lo scrittore costringe il lettore a misurarsi. Parole che sembrano innocue sono più taglienti di uno stiletto, sfilano fluide, apparentemente inoffensive, ma che liberano la loro insidia proprio quando chi legge ha abbassato la guardia.

In poche parole, l’ingegnere De Rossi era stato e si era educato a obbedire ad uno solo, ma fermissimo, principio morale: la tua libertà finisce là dove finisce il tuo rispetto di te e dove cominciano la libertà del tuo prossimo, il cattivo gusto, la stupidità e il ridicolo.

Fino al delitto finale, di affilata crudeltà, giocato sulla crepa sottile della bellezza, condizione che i due personaggi non avevano messo in conto.

Il limite della bellezza, dunque, è la libertà, sembra evincersi; la libertà spinta sino alla sua estrema ragione annienta la bellezza, effimera, vulnerabile, innocente.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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