A cosa serve la Letteratura

A cosa serve la Letteratura

I libri ci parlano. Sono come gli affetti, non conta solo averli: per godere e non soffrire di loro bisogna capirli. Chi è affetto da bibliomania conosce quello strano fenomeno per cui, già alle ultime pagine, si pensa a cosa leggere dopo. Se appena glielo si permette, i libri non ci lasciano mai soli. Il problema è che parlano la loro lingua e per capirli serve applicazione, ascolto, impegno, altrimenti ci si affida alla suggestione e, come diceva Dino Campana, la suggestione è traditrice.

Il 28 agosto sono stata invitata al Festival della Libera Università dell’Autobiografia ad Anghiari, il piccolo gioiello creato da Duccio Demetrio e Saverio Tutino per fare delle storie di ognuno qualcosa di utile anche per gli altri, proprio attraverso la Letteratura.

Chiamata a discutere sul tema scivoloso del “Perché si scrive” con Gian Luca Barbieri e Nicolò Terminio mi sono “pericolosamente” affidata a un libro e a un caso.

Il libro, tra gli altri che avevo scelto per prepararmi, è di Pierre Jourde e si intitola È la cultura che viene uccisa: una raccolta di saggi usciti su Le Figaro e altre riviste. Il caso, invece, si potrebbe intitolare così: “Hanno strappato la Madonna del parto”. Due suggestioni che alimentano chiaramente la mia indole sanguinaria, obietterà qualche buontempone.

Avevo appena finito di leggere il capitolo A cosa serve la letteratura:

“Gli uomini si nutrono di bellezza. Da lì traggono la gioia di vivere” scrive Jourde. “Il sapere letterario non risiede all’esterno di noi. Attinge dall’insieme del nostro spazio mentale e della nostra individualità. Ci coinvolge”.

Con la mia amica Benedetta siamo partite in macchina alla volta di Anghiari. Ad entrambe piace errare e così un piccolo saluto alla Madonna del Parto di Piero della Francesca a Monterchi è stato inevitabile. Così piena di Grazia, non potevamo non recarci a trovarla. Solo che non la trovavamo più. O meglio: il ricordo del posto dove l’avevamo vista l’ultima volta anni fa non coincideva con le indicazioni marroncine che iniziavano dalla statale per salire su verso le colline di erba e tabacco, tra Umbria e Toscana. Ci siamo affidate alle istruzioni, abbiamo seguito le indicazioni, ci siamo ritrovate davanti a un edificio pallido che ricordava molto una scuola elementare alla De Amicis e molto poco la chiesa che aveva accolto per secoli la Madonna placida che si carezza il ventre tra due angeli con gli stessi volti schietti e gentili che troveremo al bar poco dopo.

L’hanno portata via. Adesso, per andarla a trovare, più che la fede servono sei euro e cinquanta per entrare nella stanza asettica che la contiene. Il mio pensiero è andato a quel capitolo de La pelle di Curzio Malaparte in cui un’altra Vergine viene ostentata a pagamento, più sciagurata e altrettanto piena di Grazia.

Strappata. Si sarà forse discusso a lungo se effettuare un’estrazione con taglio chirurgico a linea retta, oppure uno più “naturale”. Si deve essere optato per quest’ultimo più casual, visti i bordi irregolari che più che altro ricordano quello che sono: uno strappo.

L’affresco tristemente rinchiuso ora dietro una lastra di vetro che lo rende simile a un ologramma, identico a una farfalla nella teca di un entomologo, incupito da un buio scientifico e da un’illuminazione artificiale, gli ingressi contingentati, l’aria assente e l’ansia di uscire perché fuori altra gente deve vedere.

È così che un’icona di Grazia diventa intrattenimento a pagamento. Penso a Cristo, a come si arrabbiava coi mercanti nel tempio.

È così che la casualità, insieme alla causalità, che ha spinto per anni pellegrini, contadini, anime semplici, fuggiaschi e viaggiatori, credenti e non credenti al riparo della chiesa di Santa Maria di Momentana per la quale venne pensato l’affresco, perde la sua funzione: lo stupore, e la trasformazione.

Misterioso è il committente dell’affresco, misteriose le origini della chiesa, che si pensa in origine sede pagana di riti della fertilità che si perdono nell’ombra dei boschi, ritiratisi per far posto ai campi.

L’arte, come la Grazia, come l’amore, è imprevedibile. Ci stupisce, ci lascia senza parole. Non è quantificabile. Arriva quando vuole, arriva per caso, non certo dopo aver pagato un biglietto e fatto la fila, carichi di aspettative. Per questo l’arte, come la Grazia, come la Letteratura, ci trasforma. Trasformandosi ci cambia, cambiando si cresce, si semina, non si invecchia. Come gli alberi che nascono, crescono e muoiono senza invecchiare, protetti dalla bellezza e dall’incapacità di avere delle aspettative.

Chi ha aspettative rischia di restare deluso. Chi ha aspettative rischia di essere una vittima, ma l’aspettativa è una delusione senza colpevoli. Molto meglio non avere aspettative, e rischiare per caso di scoprire la Grazia, diventare eroi invece di vittime. La Letteratura, come la Grazia, può trasformare una vittima in eroe.

“Ma quello sfondo a conchiglia, tipo, dietro la Madonna, cosa sarà?” Mi chiede giustamente Benedetta, anche lei intristita da quella Madonna in cattività. Non ricordiamo più il perché di quello sfondo, terzo protagonista dell’opera. Perdiamo così un altro pezzo della storia di quel dipinto.

“Le nostre invenzioni ci rappresentano”, continua Pierre Jourde nel suo saggio. “Noi siamo farciti di parole. La nostra vita è spesso il racconto che noi ne facciamo. La Letteratura, intesa come ritorno al reale nella sua complessità, allargamento del campo sensibile, approfondimento e possibilità di esperienza, fintanto che lo scrittore si consacra in tutto e per tutto a questi compiti, è necessaria oggi più che mai. Perché mai come ora abbiamo tanto immerso noi stessi nelle parole e nelle immagini. Mai siamo stati così tanto minacciati dalla derealizzazione. Mai come ora siamo stati bombardati da stereotipi, slogan, cliché, frasi fatte, automatismi verbali, immagini commerciali, luoghi comuni”.

Ecco che anche lo scrittore Pierre Jourde ci mette di nuovo in guardia dai rischi delle aspettative nel desiderio della Grazia, nel ridurla da dono inaspettato a procedura. Come quell’affresco, mozzato della chiesa che lo ha custodito per secoli, ci dimostra. Diventato solo pezzo da Museo, perde la sua Grazia.

Nei giorni in cui il cliché per antonomasia è la parola “resilienza”, rispondo rispolverando una parola antica e preziosa: “Empatia”. “Derealizzazione”, invece, è una parola poco di moda. È l’assenza clinica di empatia. Jourde ci mette in guardia anche da lei.

Scoprire per caso un affresco entrando in una chiesa è un esercizio che prepara alla scoperta, alla curiosità, all’ascolto. Gli ingredienti dell’empatia. E della Grazia. Come quando ci si mette in ascolto.

“Io scrivo come un melo fa le mele”.

Ho iniziato così ad Anghiari. Saranno state le colline, o la tristezza nel pensare a quella chiesa e al buco lasciato quando hanno strappato via l’affresco (prelevato, sarebbe più politicamente corretto), o la nostalgia del silenzio che si trova andandosi a sedere protetti dai rami di un albero (quelli da frutto sono i più timidi, i più umili e silenziosi, li consiglio).

Sarà la nostalgia del silenzio di una chiesa di campagna e dei suoi angeli belli e ignoranti, così lontani dalle nostre aspettative e dalle nostre procedure per essere felici o per essere scrittori.

Per fortuna c’è sempre la Letteratura, quella che non basta leggerla, bisogna capirla.  Come tutto ciò che si ama. Un altro esercizio, infinito, di Grazia.

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Scritto da
Chiara Fortebraccio Di Domenico
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1 commento
  • Davvero un bell’articolo pieno di Grazia. In cui s’avverte la pura passione per le “lettere”.
    “Io scrivo come un melo fa le mele” una definizione migliore non poteva essere scritta.
    Mimma