Akwaeke Emezi e l’alterità ogbanje

Akwaeke Emezi e l’alterità ogbanje

“Tuttavia, essere ogbanje significa essere classificati come altro e portare l’alterità in un modo che trascende la più ordinaria alterità binaria di genere”. Misty Bastian, Irregular Visitors: Narratives about Ogbanje (Spirit Children) in Southern Nigerian Popular Writing.

Akwaeke Emezi (persona che usa il pronome loro in riferimento alla propria persona; viene per questo usato il plurale qui di seguito), 31 anni, “trans e plurale non binaria”, sono scrittori e videoartisti di origini nigeriane e malesi. Nati e cresciuti in Nigeria, vivono attualmente a Brooklyn. Nel 2017, Emezi hanno vinto il Commonwealth Short Story Prize (per la regione Africa) con Who Is Like God?

Il pluripremiato romanzo d’esordio, Freshwater (pubblicato in Italia come Acquadolce, Il Saggiatore 2019), nominato dal New York Times fra i cento migliori libri del 2018, è una storia di formazione che segue l’infanzia travagliata di Ada in Nigeria, fino agli anni dell’università negli Stati Uniti. Il libro parla di un risveglio sessuale, spirituale ed emotivo, ma anche di una vera e propria negoziazione tra molte voci interiori all’interno di un sé multiplo.

Ho conosciuto Akwaeke Emezi quasi per caso, su un blog di letteratura inglese. Quando ho letto per la prima volta uno dei libri di Emezi, Acquadolce (Il Saggiatore, 2019), mi sono subito resa conto che avevo di fronte una scrittura molto diversa dal solito: richiedeva tempo per essere compresa, richiedeva approfondimento, indagine. Leggere è anche questo: scoprire una nuova narrazione del reale, imparare a leggere il mondo attraverso l’alterità. Per tale motivo, si potrebbe dire che leggere viene prima di una delle attività che amo di più, scrivere. Ci sono letture che, nella lunghezza di un libro, ci possono stravolgere. Dai libri di Emezi e, in particolare, Acquadolce (Il Saggiatore, 2019) riceviamo proprio questo: una sorta di trasformazione a dir poco magica. Un’esperienza che io, personalmente, ho provato solo con pochi altri libri o con esperienze in natura o nell’arte visiva.

Il romanzo Acquadolce è radicato nella cosmologia Igbo. Il titolo viene da un proverbio, tutta l’acqua dolce sgorga dalla bocca di un pitone: o, in altri termini, tutta la vita proviene dalla divinità Ala, il cui avatar è il pitone.

Scritto con una brillantezza stilistica unica, questo romanzo abbaglia per la sua feroce energia serpentina e, insieme, per la sua grazia. La “litania della follia” viene vissuta da Ada, ma procede verso il lettore proprio come un serpente, con movimenti obliqui e ipnotizzanti. Ada scopre di essere una ogbanje: bambini spiriti che muoiono e rinascono. Ma non solo è abitata da spiriti; è un individuo collettivo, è plurale e singolare allo stesso tempo. Il romanzo inizia con la voce collettiva in prima persona: “Noi” vivono Ada e raccontano la sua traiettoria di vita. Noi è la voce di tutti i personaggi che compongono Ada. Una voce poetica e incantatrice. Tuttavia, avviene un netto cambiamento nell’orchestrazione di queste voci quando Asughara, uno dei di Ada, assume il controllo della narrazione. La voce di Asughara, colloquiale e intima, distintamente nigeriana, aggiungerà un punto di vista sostanziale alla vita della ragazza. È un’altra cultura che ci sta parlando.

Rivelandosi nel possesso di un corpo umano, la fame di esperienze sensuali di Asughara è una forza brutale non mediata da alcuna preoccupazione umana sulle possibili conseguenze emotive. Affronta incontri sessuali con fervore edonistico, semina il caos nelle relazioni di Ada. Ma, contemporaneamente ad Asughara, Ada conoscerà anche un delicato e maschile nella «stanza di marmo della sua mente». Questo ente è Saint Vincent. Successivamente, comparirà anche un Gesù brillantemente satirico che alcuni lettori hanno tacciato di blasfemia. Ada non sta scegliendo una religione, una cultura. La protagonista contiene tutte le diverse entità allo stesso tempo, così come dovrà modificare il suo rapporto con esse, al cambiare delle esperienze e del trascorrere del tempo, in un continuo mutamento interiore. E non c’è momento che il lettore si scolli dalla pagina o metta in discussione la veridicità di ciò che legge.

In uno dei capitoli più affascinanti, Ada affronta Asughara. Trascinata dalle sue voci, Ada affronterà anni di autolesionismo e di dolori psichici. Eppure, troverà una misura pacificatrice: non sarà attraverso l’eliminazione di certe parti di se stessa, piuttosto grazie alla completa accettazione dell’essere «un villaggio dai mille volti e una combinazione piena di ossa: di migliaia traslucidi». Quando poi il racconto si sposta in Nigeria il narratore diventa Ada: una voce nuova, infusa della cadenza poetica dei tanti Noi. È il culmine dello straordinario viaggio che Acquadolce ci fa compiere: la manifestazione della consapevolezza di Ada di essere irrevocabilmente una fusione di tutti i suoi vari e divergenti sé. Acquadolce nasce dalla dissonanza, insiste su un sé multiplo, l’unico che può offrirci una comprensione del mondo e dell’interiorità.

 Si potrebbe provare a racchiudere questo romanzonella domanda: come sopravvivere con delle divinità che abitano il tuo corpo? Forse, un’altra faccia della domanda che René Girard pose al centro de I Demoni: Possiamo sfuggire al sottosuolo con la padronanza del sé? La prima risposta è nella scelta deliberata di narrare la storia da un centro diverso: un centro, per così dire, non umano. La decisione, insomma, di usare un linguaggio del tutto inatteso, di non fornire una narrazione consolatoria nella quale la maggior parte si sarebbe sentita a proprio agio.

In secondo luogo, la protagonista Ada incarna le risposte di una divinità Igbo – Ala – i cui modi e il cui culto il padre, nigeriano cattolico, ha quasi dimenticato. Il sé di Ada, quindi, collega inestricabilmente la propria coscienza con le forze cosmiche che esistevano molto prima che Ada nascesse.

Nelle parole di Akwaeke Emezi:

La possibilità di essere un ogbanje mi venne in mente più o meno nello stesso periodo in cui mi resi conto di essere trans, ma mi ci è voluto un po’ per incrociare i due mondi. Ho soppresso il primo per alcuni anni perché la maggior parte della mia educazione era stata occidentalizzata – mi era difficile considerare la possibilità di un mondo spirituale Igbo, veritiero tanto quanto ciò che avevo imparato a scuola. L’eredità del colonialismo ci aveva sempre insegnato che un mondo del genere non era reale, che non era altro che juju e superstizione. Quando ho finalmente accettato la sua validità, ho rivisitato cosa ciò potesse significare per il mio genere. Tanto per cominciare, Ogbanje ha un genere? Il genere è, dopo tutto, una cosa così umana.

Che gli Ogbanje siano essi stessi un genere o senza genere non importa; Acquadolce azzarda un salto ancora più spericolato: ci offre le categorie della cosmogonia nigeriana abbandonando quelle umane. Emezi raccontano la realtà transgender come uno spirito che personalizza “la sua nave” (il corpo) per riflettere la sua natura.

Dunque, i libri di Akwaeke Emezi chiedono ai lettori occidentali di riconsiderare ciò che ci è stato insegnato, di pensare da una prospettiva del tutto nuova l’identità di genere e la salute mentale, di esprimere l’esperienza del sé in modo difforme.

 Altri romanzi, rinomati a livello internazionale, hanno raccontato del trovarsi tra due culture e rimanerne intrappolati, come We Need New Names di Noviolet Byawayo o Americanah di Chimamanda Ngozi Adiche. Eppure, Acquadolce di Emezi, pur trattando lo stesso tema, traccia una prospettiva del tutto diversa: Ada arriva a fidarsi della sua realtà interiore piuttosto che adattarsi a ciò che il mondo esterno vuole imporle.

In un altro libro, un romanzo per giovani non ancora tradotto in Italia, Pet (Penguin, 2019; finalista per il National Book Award 2019), Emezi raccontano “Come si salva il mondo dai mostri se nessuno ammetterà che esistono?”. Quando l’ho letto, ho subito immaginato come potrebbe essere accolto in Italia un libro del genere, che non solo racconta le esperienze di una giovane trans nera, ma invita ad ascoltare le storie senza dare mai nulla per scontato. Pet ci mostra come una narrazione possa diventare un fatto collettivo, contagioso, perché non possiamo fare a meno di raccontarla ad altri. Pet è un atto di ottimismo.

«Siamo l’uno il raccolto dell’altro». Per le persone della città immaginaria di Lucille, queste parole, scritte dalla poetessa Gwendolyn Brooks in omaggio al grande Paul Robeson, sono il grido di battaglia della loro rivoluzione. «Ogni faccenda personale riguarda anche gli altri; siamo l’uno dell’altro magnitudine e legame», continua il verso. Ma non basta ricordare che le comunità utopiche come Lucille possano esistere, devono anche essere mantenute vive e per questo bisogna battersi. Nelle parole di Emezi:

Ho pensato a cosa avrei voluto leggere se fossi stat@ adolescent@ adesso, in questo clima attuale – di cosa mi sarei preoccupat@. La mia attenzione era verso ciò che sta succedendo nel mondo in questo momento: quante persone non chiamano le cose per quello che sono, non chiamano mostri i mostri, non chiamano male il male, o non chiamano suprematisti bianchi i suprematisti bianchi. E ho riflettuto sulle conseguenze che ciò comporta se sei una persona giovane (…).

Quando si trattano personaggi trans, in particolare ragazze o donne trans nere, accade spesso che il personaggio muoia o vada incontro a un percorso di distruzione. Emezi hanno sperimentato, ancora una volta, un’alternativa: «Volevo lanciare un incantesimo grazie al quale una ragazza trans nera non finisse ferita. I suoi genitori sono di supporto. La sua comunità è completamente solidale. (…) Spero che (…) chiunque lo legga, possa dire: questo è come dovrebbe essere la mia vita. Questa è una possibilità.»

L’ultimo romanzo di Emezi, The Death of Vivek Oji (Penguin, 2020), ha un piano spirituale simile ad Acquadolce. Il suo protagonista, Oji, è morto. «Hanno bruciato il mercato il giorno in cui Vivek Oji è morto», inizia il racconto che intervallerà i ricordi degli amici di Oji e dei familiari con frammenti della sua testimonianza dall’oltretomba. Siamo con Oji durante l’infanzia, mentre gioca con i gioielli di sua madre, «mentre si adorna con una delle collane lo sterno» e subito dopo siamo nel mercato in distruzione. Oji è vivo, poi morto, poi di nuovo vivo, a volte tutto in uno stesso paragrafo; una cornice narrativa che si dilata e ci immerge e che non smette mai di avere perfettamente senso.

Mi auguro che, oltre ad Acquadolce, altri libri di Emezi potranno presto essere disponibili per i lettori italiani. Non soltanto perché sono ben scritti o piacevoli da leggere, ma perché le loro storie mettono in discussione tutto ciò che diamo per scontato. Marlene Nourbese Philip, scrittrice canadese nera, nata nei Caraibi, ci dice che è nel nostro potere di lettori e scrittori de-narrare le storie, quelle retoriche con cui viene difesa la sopraffazione, le narrazioni trite del reale che ci vengono offerte da tanti politici e media. Si tratta di ritrovare un proprio vocabolario, rinnovato. I libri di Emezi sono fra quei libri che ci invitano a fare proprio questo. Sono atti di conoscenza collettiva.

Nonostante Acquadolce abbia ricevuto diverse recensioni, rimane poco conosciuto nel nostro paese, come anche Emezi. Acquadolce è uno di quei libri che richiede concentrazione e condensazione dei significati, la stessa condizione della sostenibilità. Il tempo della lettura attenta è un tempo in cui si diventa consapevoli del valore di ogni azione e di ogni scelta. Lo apprendiamo con la mente, ma naturalmente anche con il corpo. L’impulso verso un libro bello è quello di consumarlo avidamente. Ma la lezione che ci suggerisce la lettura attenta è quella di rallentare, di rimanere a lungo con le parole e trovare un modo per entrarci. Un libro, come l’autore, possono essere interpreti del circostante, sta a noi lettori saper riconoscere e ricevere. Non tutti gli autori posseggono questa dote e non tutti i libri che troviamo in commercio posseggono queste qualità. Ma, come lettori attivi, possiamo scovarli: trovare ciò che per noi acquista un significato speciale nella babele delle pagine scritte. Saper scegliere un libro è un atto politico. È in discussione la nostra conoscenza del mondo e la nostra capacità di viverci, senza distruggerlo e senza distruggerci.

Quotidianamente, riceviamo una quantità enorme di informazioni e di dati. Spesso ne siamo addirittura sopraffatti. Abbiamo anche a disposizione moltissime sorgenti di informazione. Ma non basta. Occorre rivoluzionare l’orizzonte del nostro pensiero – come fa Ada quando si confronta con gli esseri plurali che la abitano – se non vogliamo soccombere e se vogliamo smettere di essere gli autori delle distruzioni (ambientali e umane) del nostro pianeta.

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Scritto da
Viviana Fiorentino
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