Il cosmo e la coerenza delle narrazioni inattendibili

Il cosmo e la coerenza delle narrazioni inattendibili

“La credenza che la realtà che ognuno vede sia l’unica realtà è la più pericolosa di tutte le illusioni”, sosteneva Paul Watzlawick, e questa considerazione mi sembra più che mai appropriata per introdurre un bellissimo e perturbante romanzo polacco recentemente ripubblicato da Il Saggiatore: Cosmo, di Witold Gombrowicz (1904 – 1969).

“Voglio raccontarvi un’altra avventura, ancora più strana”, ci avverte il narratore fin dall’incipit, e da quel momento – affiancando il protagonista e il suo compagno di villeggiatura Fuks – veniamo trascinati nella risoluzione di uno strano romanzo giallo che ci chiama a investigare sull’ignoto a partire da indizi e tracce decisamente inusuali, come un passero e un bastoncino impiccati, o una freccia sul muro, o un bricco.

Il passero penzolava. La terra era spoglia, a parte qualche tratto invaso da un’erba corta e rada, costellata da un vasto assortimento di cose varie, un pezzo di lamiera contorta, uno stecco, un altro stecco, un cartone strappato, uno stecchino e poi uno scarabeo, una formica e poi un’altra formica, un verme ignoto, un ciocco di legno e così via fino agli sterpi ai piedi dei cespugli…

Di fronte allo sguardo del protagonista, così come di fronte agli sguardi di ognuno di noi, la realtà si presenta ricca di elementi che invocano una stessa dignità, ma che solo l’occhio di chi osserva e la mente di chi narra possono elevare alla condizione di segni o simboli: nel “cosmo” creato da Gombrowicz avviene così un rovesciamento, per cui non sono gli indizi a guidare la mente organizzatrice del narratore, quanto la predisposizione del narratore a selezionare, catalogare e disporre in un senso logico gli indizi stessi.

Witold Gombrowicz amava definire il suo Cosmo come un romanzo sulla realtà che crea se stessa, un tentativo di trovare un senso al caos, di organizzarlo, proprio come accade in quelle detective stories da cui il romanzo eredita la struttura, e la voce perturbante che racconta questa storia, pur apparendoci poco affidabile nella sua paranoia e nella costruzione dei collegamenti tra gli indizi, chiede di imporsi come credibile a fronte della coerenza del mondo che ci racconta e propone.

Un contrasto simile tra attendibilità effettiva e coerenza nella visione del narratore lo si trova per esempio nel Memoriale di Paolo Volponi, dove il protagonista Albino Saluggia arriva a convincersi che la fabbrica per cui lavora – di fatto un microcosmo, e quindi considerabile come un’entità unica non troppo diversa dal cosmo di Gombrowicz – sia teatro di macchinazioni orchestrate alle sue spalle per “rovinarlo” e attuate dai cuochi come dai medici, dai carabinieri fino alla madre vedova.

In questo caso la sofferenza (e la conseguente riorganizzazione del cosmo e dei nessi tra le sue parti) è più circostanziata, legata al rapporto tra l’uomo e la vita automatizzata e spersonalizzante della fabbrica prima ancora che a quello tra l’uomo e l’esistenza stessa, ma il risultato narrativo è molto simile: il protagonista si figura come un narratore inattendibile ma capace di trasmettere al lettore un’illusione coerente e per questo non confutabile.

Romanzi come Cosmo e Memoriale sono accomunati dal fatto che il narratore stesso, prima di volerci persuadere della propria unica e personalissima visione della realtà, sia dolorosamente convinto di quello che racconta, generando così quella pericolosa credenza di cui parlava Watzlawick.

Un altro narratore di questo tipo, ma forse già più cosciente e malizioso di Saluggia, appare nel racconto Il cuore rivelatore di Edgar Allan Poe:

Questo è vero, sono un uomo nervoso, spaventosamente nervoso, e lo sono sempre stato; ma perché pretendete che sia pazzo? La malattia mi ha reso i sensi più acuti, mica me li ha distrutti, logorati. E già avevo l’udito finissimo, e tutto ho sentito del cielo e della terra. Anche dell’inferno ho sentito parecchio. Com’è dunque che sarei pazzo? State attenti! E osservate con quanto senno, con quale calma sono capace di raccontarvi tutta la storia.

E noi, finché il racconto non ci appare in tutta la sua irragionevolezza, gli crediamo, così come crediamo al temibile narratore di un celebre romanzo di Luigi Malerba, Il serpente, dove – al contrario dei testi presentati finora – il narratore opera una manipolazione cosciente della realtà, facendo forza proprio sulla credibilità che il lettore normalmente attribuisce alla sua figura.

In questa storia, che proprio come Cosmo utilizza i meccanismi del giallo, il protagonista è ossessionato dal bisogno di gestire il caos che lo circonda e da quello di ricevere dei segni e delle certezze (una tra tutte: quella riguardante l’infedeltà di Miriam); arriva dunque al punto di confessare un terribile delitto per poi, mano a mano, confutare ogni dichiarazione fatta, ogni elemento presentato, e togliere credibilità alla narrazione stessa:

Adesso la storia è finita. Ma non so nemmeno se è proprio una storia.

Se il romanzo di Gombrowicz appariva come una realtà capace di creare se stessa, con Malerba apprendiamo che così come la mente può creare questa realtà allo stesso modo può disfarla; distruggerla. Proprio a dimostrazione di come, a patto che il cosmo inventato dal protagonista-narratore sia perfettamente organizzato, le verità possano essere raccontate in un modo o in quello opposto e risultare ugualmente coerenti, ugualmente innestabili e catalogabili nel personalissimo cosmo di ogni lettore.

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Scritto da
Giorgia Tribuiani
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