Un giorno, un cane, l’amore

Un giorno, un cane, l’amore

Se i silenzi non parlassero
Nessuno potrebbe dire
Ciò che le parole tacciono

José Bergamin

Cosa ci si aspetta da un cane in un libro senza suoni e senza parole? Il suo verso non può essere udibile e se le immagini sono in bianco e nero nemmeno i colori aiuteranno. Il suo solo sguardo riesce a stabilire un’intesa con il lettore?

Un silent book può creare imbarazzo perché siamo abituati a una bulimia di parole. Laddove la superficie del silenzio si estende, lì sgorga la sorgente del significato, ma il pensiero si rifiuta di concedergli un margine. È bizzarro come il nostro tempo sia popolato da suoni, stipato da parole, affollato da rumori come se non ne potessimo fare a meno. Tanto che “Un giorno, un cane” ti spiazza.

La copertina bianca e il disegno a matita di un cane, probabilmente un bracco o un meticcio a chiazze bianche e nere, che ti scruta, che penetra nella coscienza come un’immagine archetipica con cui siete stati un tutt’uno.

Gabrielle Vincent svuota le pagine del superfluo animando ora un animale, ora una strada o un’auto senza che questi elementi sovrabbondino. Nella rarefazione delle immagini la storia dice senza bisogno di parole. Nulla v’è scritto di ciò che il lettore legge, eppure il vento, l’acqua, il fuoco, la paura, la notte, la solitudine, il dramma, l’amore scorrono intensamente e giungono al limite della sopportazione.

Un cane abbandonato, lanciato dal finestrino di una vettura in corsa somiglia a un sacco di rifiuti. La strada deserta, Gabrielle Vincent si focalizza sull’essenziale: animale e macchina, natura e progresso, innocenza e spietatezza.

Le linee vorticose che si formano dietro al cane che insegue il suo animale umano, la corsa a perdifiato, il rombo del cuore e quello del motore, la curva presa troppo velocemente, a Vincent bastano pochi tratti, perché ci sono dei frangenti dell’esistenza dove la sostanza delle cose pretende crudezza e spoliazione.

L’orizzonte è deserto ma il cane corre e la sua disperazione ne trasfigura l’immagine, quasi come se l’autrice volesse disegnare linee di forza e di flusso insieme con un solo punto di fuga rendendo indistinguibili i tratti del volto del quadrupede pur non facendone perdere la sensazione e l’espressività. Man mano che la velocità dell’azione diminuisce s’intensifica il tratto e si rendono riconoscibili i passeggeri a bordo dell’auto. Sono due coniugi e un terzo personaggio che potrebbe essere un bambino. L’uomo al volante si accerta che il cane non li segua più; della donna riusciamo a scorgere l’indifferenza nello sguardo; del piccolo solo i capelli, come per il capo chino nel dispiacere.

Subito il pensiero va ai 117mila cani adottati in Italia durante la pandemia e abbandonati una volta passata l’emergenza perché troppo impegnativi e alla miserabile condizione degli umani che hanno compiuto il gesto.

Ma Gabrielle Vincent fa ancora di più. Ci mostra l’amore, il senso d’abnegazione canina nella ricerca dei padroni, fino all’imprevisto.

L’editore Gallucci fa ritornare nelle librerie italiane uno splendido testo, dopo ventotto anni dalla sua prima pubblicazione, attraverso un albo di struggente bellezza e eleganza. Ciascuno dei disegni andrebbe preso e incorniciato. Ogni immagine messa in successione cronologica a formare una mappa dell’amore e dell’assenza.

Gabrielle Vincent è una delle più grandi illustratrici del XX° secolo, divenuta celebre per Ernest e Celestine, il cui albo a colori è pubblicato dallo stesso editore.

La pienezza dei disegni è la grazia dell’istante in cui un cane guarda in faccia l’orrore e nonostante tutto ritrova l’armonia.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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