“Il testamento dell’uro” di Stéphanie Hochet – La scheda del libro

“Il testamento dell’uro” di Stéphanie Hochet – La scheda del libro

“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”.

La copertina de “Il testamento dell’uro” pubblicato in Italia da Voland

È la prima riflessione che emerge dopo avere terminato “Il testamento dell’uro”, di Stéphanie Hochet, mirabilmente tradotto da Roberto Lana e pubblicato da Voland.
Di quanto sia spaventosamente normale (la terribile normalità) lo spirito che accompagna l’uomo nella Soluzione Finale, riecheggia imponente il monito di Hannah Arendt, quando sostiene che il male possa invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo, sfidando il pensiero che invece ha radici e raggiunge la profondità, quando il male è frustrato perché alla fine non trova nulla e da qui la sua banalità.

La banalità del male nella logica dell’uomo carismatico, osannato dalle folle, capace di spingersi laddove nessun altro ha osato andare. Frantumate le frontiere del buon senso, sdoganate le coercizioni più vergognose, il regime avanza, ma è così visibile da risultare innocuo.
L’origine del potere e la capacità di avviluppare gli uomini e controllarli sembra la base su cui si erge maestoso l’intrigo architettato dalla raffinata penna di Stéphanie Hochet.

Una giovane scrittrice, di cui non conosceremo mai il nome, si reca nel sud della Francia per una serie di presentazioni del suo ultimo libro. All’inizio nulla appare degno di nota per la donna che, abituata a incontrare i lettori, accoglie con disinvolta naturalezza anche le domande più insidiose, sino a incontrare lui, l’emblema del Male, Charnot, il sindaco di Marnas, che “amava la specie umana per il suo lato incontrollabile, il furore dei sentimenti, il mistero dei sensi, la lotta primitiva che si percepisce nei boschi quando si può uccidere o essere uccisi”.

Charnot ha deciso di entrare in politica per la ferocia che risveglia, per l’eccitazione dell’istinto predatorio. Intorno a sé una comunità di accoliti pronti a servire i principi da lui propugnati, convinti che quell’essere sia  in grado di dare dignità alla cittadina e poi alla nazione.
La scrittrice viene drogata e portata in un cascinale lontano dagli occhi del mondo, perde i contatti con la famiglia, ma ciò che è più sconcertante è che quando si risveglierà nella casa dei suoi “guardiani”, Edwige e Cédric, sarà completamente libera di andare in qualsiasi momento e, nonostante tutto, resterà.
Cosa la spinge a non fuggire e ad accettare le condizioni della sua prigionia? Il labirinto borgesiano in cui è facilmente riconoscibile un Minotauro ammaliante e una vittima consenziente conturba il lettore, spinto da una scrittura ipnotica che lo costringe a continuare a leggere come per un istinto masochistico.

Non ci si può sottrarre all’incantesimo di Stéphanie Hochet che non a caso con questo libro ha vinto i premiPrintemps du roman” e “Prix du roman philosophique” .

Vincent Charnot coinvolge la scrittrice in un progetto ambizioso quanto folle: resuscitare l’uro, l’animale preistorico che durante il nazifascismo fu adorato a tal punto da spingere i fratelli Heck, biologi del Reich, nel tentativo di ricrearlo in laboratorio. Questo imponente bovino raffigurato sin dal Paleolitico deve tornare per incarnare il principio di supremazia e spingere gli uomini a dominare la natura e i suoi elementi, nonché i propri simili. Alla scrittrice il compito di scriverne un’apologia che ne trasfiguri la possanza e la forza archetipica in un libro che sappia coinvolgere e abnegare agli ideali di Charnot le masse.

“Il più grande successo per un artista è quello di mettere la propria arte a servizio di una società nuova”.

Sembra di risentire voci del passato recente, di autocrati, d’intolleranze così ingannevoli da risultare vere e rischiare di convincere ancora una volta il mondo.

“È forse il ritorno a un’esistenza primitiva?”

All’improvviso è il silenzio, quello che Stéphanie Hochet crea dentro il lettore. È una necessità interiore per ritrovare la luce, la salvazione.
Qual è il ruolo dello scrittore? L’uro, il re degli animali in un’epoca in cui l’uomo pretende di essere la specie dominante del pianeta.
Spetta al lettore l’ultima parola, districarsi nel labirinto evitando i muri, cercando l’uscita, la redenzione, evitando il grande oblio e la resa incondizionata alla banalità del male.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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3 commenti
  • Indicatissima la citazione di Primo Levi sulla scheda di un libro come ‘Il testamento dell’uro’.
    Non so se è questo tempo che è giusto per certi testi, oppure sono certi testi che sono giusti per questo tempo. Di sicuro adesso c’è tanto bisogno.

  • La banalità del male nella logica dell’uomo carismatico, osannato dalle folle, capace di spingersi laddove nessun altro ha osato andare. In questo stile rivive un pericolo antico, mai completamente superato.