Come in uno specchio

Come in uno specchio

Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia.

Il 28 ottobre del 1958, al Royal Court Theatre di Londra debuttò “L’ultimo nastro di Krapp”, di Samuel Beckett. Il protagonista, interpretato da Pat Magee – attore per il quale il drammaturgo irlandese aveva scritto il ruolo – si ritrova davanti a un magnetofono per risentire le bobine registrate con la sua voce in gioventù. È il giorno del suo compleanno e alla fine dovrà incidere il nastro ancora una volta. Solo che sarà l’ultima.

La vertiginosa sospensione temporale (ascoltare se stesso depennando l’azione del tempo, tutto inizia e finisce con Krapp) operata con una voce fuori campo, che esprime un tempo andato, è l’espediente necessario a togliere di mezzo il rigurgito dell’altro e confermare la sconfitta dell’arte. Krapp deride ciò che è stato da giovane, la sua vita d’artista ha comportato il sacrificio della rinuncia a una vita piena. Si è ridotto all’alcolismo e alla stitichezza, al turpe, al solipsismo.

Forse i miei anni migliori sono finiti. Quando la felicità era forse ancora possibile. Ma non li rivorrei indietro. Non col fuoco che sento in me ora. No, non li rivorrei indietro.

E mentre Krapp guarda fisso davanti a sé, la voce nel nastro è cessata e la bobina gira in silenzio. A quel punto si chiude l’atto.

L’arte è sconfitta.

Sono un uomo, mi confessò, che muore troppo lentamente. Ho avuto ciò che volevo avere, e sono sopravvissuto a ciò che mi avrebbe potuto uccidere.

È un Krapp imbolsito quello che Wolf Wondratschek immola nelle pagine di “Autoritratto con pianoforte russo”, tradotto da Cristina Vezzaro e pubblicato dall’editore Voland. Si chiama Suvorin, un vecchio pianista russo che vive a Vienna, città in cui lo incontra il coprotagonista, un anonimo scrittore austriaco. Suvorin/Krapp ritorna indietro nel tempo abbandonandosi ai ricordi, rimestando tra le memorie, quelle dell’epoca in cui suonava ed era acclamato, lui, che detestava gli applausi che avrebbe scambiato volentieri col silenzio. L’arte musicale come menzogna e sortilegio, doppio della vita, preludio della morte.

Laddove Beckett pone di fronte a Krapp un se stesso giovane, come per l’azione di uno specchio temporale, Wondratschek oppone a Suvorin lo scrittore viennese e così sembrerebbe trattarsi, in quest’ultimo caso, di dialogo, di partita doppia dell’esistenza. Ma è soltanto una cortina fumogena, che diradandosi rivelerà un monologo, una controfigura, la voce unica che tutto osserva e in cui tutto s’identifica.

Per realizzare questo fine meccanismo ontologico, Wolf Wondratschek fa perdere al lettore la dimensione del parlante. Laddove è Suvorin a confessare vi si potrebbe facilmente collocare lo scrittore e gli altri pochi personaggi che si presentano come per un défilé privato, in cui lo stilista muove i mannequin e interpreta anche il pubblico. Dunque tutto coincide con Suvorin, perché quel tutto inizia e si perde con lui. Sono effimere le riflessioni sulla nostalgia, sulla verità, sulla bellezza, sulla perfezione. Come esiliato, il musicista russo ha perduto aderenza col quotidiano.

“È vero che si finisce per somigliare sempre più a coloro contro cui ci si batte”. E Suvorin si è lasciato dietro di sé la decadenza del suo paese, dilaniato, imbarbarito. Ha preferito l’esilio e dunque la dissoluzione.

Qual era il compito massimo di ogni artista, se non ciò che era vicino al popolo, che andava dritto al cuore della gente semplice, in solidarietà con le masse dei lavoratori?.

Me ne fotto dei popoli, disse una volta Carmelo Bene, intendendo la rappresentazione di stato dell’esistenza. Suvorin ne ha piena coscienza e, passata l’epoca delle lotte, dell’affermazione di un destino, sa di andare incontro al dissolvimento.

“Le sta bene quel che è? Quello che la vita ha fatto di lei?” La risposta è nella sensazione effimera di un bicchiere di vino, nel girovagare senza meta per la città.

Sempre Carmelo Bene scriveva: “non si scappa da/alla macchina”. E se Ingmar Bergman in “Come in uno specchio” aveva utilizzato le parole di San Paolo ai Corinzi: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto”, Wondratschek vede la Storia dietro all’invisibile, senza menzogna, “come verrà fuori alla fine”, in un caffè di un vicolo viennese, tenendo la lingua a cucchiaio per accogliere le prime gocce di un aroma che sa di un tempo felice.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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