Liquefazione dell’io

Liquefazione dell’io

Si esiste a dispetto della sofferenza. Anzi, certi meccanismi si sviluppano a partire da essa. A volte soffrendo si aprono voragini, ma comprimere il dolore, spingerlo tutto quanto in una direzione, vuol dire dargli un senso, immortalare l’esatto istante in cui finirà.

Quanto siamo disposti a passare attraverso la sofferenza? La sua misura esatta è la nostra capacità di maturare, di prendere distanza dall’età irresponsabile e avvezza al rischio dell’adolescenza, di prendere confidenza con la vita, di accettarla. Forse è per questo che non siamo mai al sicuro dal dolore.

Avevo inteso di avere dentro qualcosa che non capivo neppure io, un’obliquità amara verso il dispiacere, un’unione scabrosa con gli artifici del dolore, un accostamento curioso agli esiti ammaccati delle parole.

A parlare è una donna che ha lasciato tutto, compagno, città, abitudini, destino. Insieme a un’amica, Lia, con due biglietti per Los Angeles, si è lasciata dietro il dolore e la monotonia, il buio. Le due donne hanno deciso d’incontrare Tito, che vive negli Stati Uniti una vita sregolata e fatua.

Sarà la loro discesa negli inferi psichedelici del nonsense, la pericolosa caduta, il franare lento e inesorabile nell’oblio.

Dalle pagine di “Liquefatto”, Hilary Tiscione sedimenta detriti di vita in cerca di redenzione. La sua lingua esprime il viaggio del disamore, l’inabissamento della salvezza. La tensione creata è frutto di una sapiente combinazione meta-letteraria che non rinuncia all’armonia dello stile, anzi ne fa la propria cifra.

Tiscione deforma le esistenze, le tiene al margine di se stesse, le fa arrivare al limite della sopportazione utilizzando luoghi e contingenze incompatibili con la più umana pietà.

Io sto cadendo.
Era ora, no? Tu pensa a un animale.
Un animale?
Sì, pensa a un animale costretto a praticare la misura della gabbia. E pensa a noi che siamo bestie capaci di assegnarci gabbie strette come scatole cinesi della misura più fonda. Guarda che bestia sono io, dico.
Tu hai un essere dentro.
È la mia gabbia.

I tre protagonisti cavalcheranno l’energia spensierata della loro giovane età, abusando di ogni energia residua pur di attraversare il proprio confine esistenziale.
Nella folle corsa nel deserto del Mojave, per raggiungere l’hotel “El Cortez” i giovani liquefaranno ogni stilla di speranza, fino alla catarsi allucinogena, al capolinea oscuro.

Pare di vedere la società liquida di Bauman con le sue attrattive, ma più ancora il surrealismo ideativo di Anaïs Nin de “La Casa dell’Incesto”, quando la scrittrice francese scriveva: “Lentamente mi separo da ogni essere che amo, lentamente, cautamente, completamente”.
A Tiscione occorre un solo lemma per capovolgere ogni assioma, ed è nelle descrizioni la potenza della sua lingua, nell’accostamento per sovrapposizione tra ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere.

Che cosa siamo in questo momento? Spiragli miopi di un tempo posticcio?.

Per Maddalena è lo sfinimento l’unica direzione percorribile, l’annullamento di ogni possibile confine o certezza. È l’abuso, il Nirvana chimico. Per Lia è l’essere al traino di qualcuno, in balia di se stessa. Tito è il fantoccio di carne e sesso, il totem fasullo, l’approdo mai raggiunto.
Alla fine “il torrente rosso del divino è nelle braccia fredde del perdono”. Perché quando qualcosa finisce quel che resta diventa inutile.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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