È una storia di mutamenti, di transizioni, di disgregazioni. Ma è soprattutto un racconto di famiglia e di un periodo storico italiano in cui i conflitti generazionali rendono evidente una discrepanza fondamentale tra padri e figli.
La voce narrante è quella di Cristina. Ci parla da Lagos, in Nigeria, dove insegna. Quella distanza geografica è anche emotiva, e le permette di ritornare indietro nel tempo, alla sua infanzia, alla sua città, a tutto quello che accadrà in un anno fatidico: il 1972.
I suoi genitori si sono sposati nel 1952.
Allora Ferrara aveva ancora occhi ciechi, mani monche. La nebbia che dalle campagne invadeva i portici, così fitta da nascondere i contorni del Castello e le luci dei lampioni, non odorava solo di umido e di freddo, sembrava contenere ancora il sapore della guerra, l’odore del sangue.
Attraverso la memoria della sua famiglia, Cristina comincia un viaggio a ritroso per ritrovare il momento in cui qualcosa determinò uno strappo, una cesura dell’anima, un sentimento difforme, un’incrinatura.
Il suo legame con Marcello, fratello maggiore, è un’intesa elettiva, un contagio esistenziale che innesca una visione a due del mondo, dei rapporti, dell’amore. Cristina e Marcello si ritrovano a muovere i primi passi da bambini e poi da adolescenti. Si confidano, non hanno nemmeno bisogno di parlare per intendersi. Il loro rapporto è fatto di sguardi e complicità.
Con la madre Cristina non lega, sembrano frontiere spinate, irrimediabilmente asserragliate.
Non ti amavo, mamma. Non potevo. Un po’ di amore è venuto dopo tanto tempo, da una regione remota, non so più nemmeno io se del cuore o della memoria. Comunque, dopo. Dopo che la morte ci aveva tolto altre persone e aveva approfondito ancora di più il lutto della nostra famiglia.
Col padre, invece, i confini si aprono e i loro territori comunicano attraverso le letture dei classici greci e latini e delle poesie.
Maria Luisa è la piccola di casa, non desiderata, non ascoltata, una presenza superflua, inopportuna, che impara a ritagliarsi un angolo di cielo in famiglia.
Quando quest’ultima compie cinque anni, nel 1972, una novità irrompe temporalesca nella quotidianità di un nucleo di anime non ancora pronto ad affrontare il viaggio.
È morta la nonna paterna, occorre cambiare casa e trasferirsi a Bologna.
Il 1972 fu l’anno che tagliò in due la mia giovinezza come una torta pronta per essere divorata.
Cristina ha sedici anni, Marcello diciassette. Le loro vite subiscono una deflagrazione. Da quel momento, però, la nostra protagonista si aprirà alla dimensione dell’ascolto e della scoperta. Fino all’incontro con Elisabetta e la rivelazione della vita.
Francesca Capossele scrive di destini minimi ma eterni e ci regala una storia prossima alla coscienza della propria autodeterminazione. I suoi personaggi sono veri, umani, insospettabilmente catartici e pronti nel sapere accogliere il racconto dell’altro anche quando non sembra essere possibile.
Allora avevo sedici anni e intrattenevo con le cose un rapporto speciale che solo l’età adulta avrebbe sgretolato. Diciamo pure che amavo le cose e mi sentivo amata da loro. Rispondevo ai comandi dell’anima e credevo non potesse esistere un altro modo di vivere, di soffrire, di provare gioia.
Sono le parole di Cristina ma potrebbero essere quelle di migliaia di adolescenti che siedono accanto a noi ma che non trovano la loro giusta collocazione, un ruolo, un’identità.
Nel suo sentiero scosceso, l’autrice rimargina ferite sanguinanti col balsamo del perdono. Il tempo e la distanza ridefiniscono geografie interiori cariche di quel sentimento puro che solo l’amicizia riuscirà ad accogliere e custodire ma che solo la morte renderà immutabile.
I giovani fuori dalla loro gioventù diventano solo degli adulti che vogliono convincere altri giovani di avere fatto delle esperienze migliori. Abbiamo condiviso un’utopia: sfuggire alla trappola dell’età adulta. Abbiamo superato i vent’anni con la circospezione che si ha con la morte. Mi sono domandata a lungo se è accaduto in ogni secolo, o solo ai giovani del Novecento.
Ed è solo un attimo che cresciamo e ci guardiamo intorno. Solo un attimo prima della caduta.