Dall’altra parte della vita

Dall’altra parte della vita

Non so se mi capisci, ma dal momento in cui l’essere umano è l’unico animale votato all’autodistruzione, mi chiedo: come possiamo valutare l’intelligenza di chicchessia? Se per assurdo dovessimo confinare due persone su un’isola deserta, il loro primo istinto sarebbe quello della sopravvivenza. Ma una volta stabilite le norme di comportamento da rispettare, inizierebbero ad accorgersi della diversità tra di loro e, infine, si massacrerebbero a vicenda.

Ferdinand Bardamu è tornato. Si è spostato geograficamente e temporalmente e ha assunto un nuovo nome. Adesso si chiama Vanja Kovačević, si trova in Croazia e ha combattuto una nuova guerra negli anni ’90 del secolo scorso.

La vita, per chi non ha mezzi, è solo un lungo rifiuto in un lungo delirio e uno mica la conosce bene sul serio, ci si libera solo di quello che si possiede. E già per conto mio, a furia di prendere e lasciar sogni, avevo la coscienza in balia delle correnti d’aria, tutta escoriazioni e screpolature, rovinata da far spavento.

“Il paziente della stanza 19” di Zoran Žmirić (tra i più rinomati scrittori e poeti croati contemporanei), tradotto da Anita Vuco e pubblicato da Infinito Edizioni, spaventa per invidiabili e sfavillanti assonanze con “Voyage au bout de la nuit” di Louis Ferdinand Céline.

Provate a capire quale stralcio appartenga all’uno e quale all’altro autore. Risulterà difficile, quasi impossibile. E questo non vuol dire che Žmirić si sia avvalso dello stile di Céline, ma che la grande letteratura brilli di una luce diamantina che avvolge la propria fonte sino a renderla indistinguibile.

Laddove Ferdinand Bardamu si rivolgeva a Léon Robinson, sua coscienza interiore durante frangenti decisivi della narrazione, qui Vanja Kovačević si rivolge al suo psichiatra, rievocando il momento della sua prima esperienza con le armi, per il suo diciannovesimo compleanno.

Persino l’esergo musicale risulta sovrapponibile.

“Notre vie est un voyage/Dans l’Hiver et dans la Nuit/Nous cherchons notre passage/Dans le Ciel où rien ne luit”, tratto da “Canzone delle Guardie Svizzere” del 1793 per il testo di Céline; “On days like this/In times like this/I feel an animal deep inside” tratta da una canzone dei The Sisters of Mercy” per quello di Žmirić.

Nella narrazione la guerra è un pretesto per la ricerca della verità e per una presa di coscienza nichilistica in cui non v’è spazio per la salvazione. Fatti epici, contrasti sociali e storici, sopravvivenza di una cultura e di un popolo, lotta per la libertà e l’affermazione dei diritti, tutto cospira in funzione di una coscienza allargata dell’esistenza e delle cose del mondo che non possono in alcun modo spostare l’asse della consapevolezza.
Forte della sua decisione Vanja decide di recidersi il pene e lo dichiara nel primo capitolo del libro. Misura diciannove centimetri e li taglia tutti, quanti sono stati gli esseri umani che ha ucciso in guerra.

Potresti pensare che il mio gesto sia il risultato dell’attaccamento, ma ti sbaglieresti. È l’espressione di una libertà che mi permette di fare ciò che voglio, nonché quello che ritengo sia giusto.

E ciò che Vanja ritiene essere giusto è una confessione piena, improrogabile al suo psichiatra, che non apparirà mai. Noi ne avremo traccia come nel riflesso di uno specchio.

Il monologo di Vanja è crudo, crudele, ostinato, quasi masochistico. Non ha uno scopo se non quello di sputare via dal suo corpo il veleno accumulato ad appena diciannove anni, quando fu chiamato alla guerra e spense diciannove vite “come candeline”. Si libera della parola, come si è liberato del pene, esattamente diciannove anni dopo.

Quando noi lo incontriamo Vanja però ha quarantaquattro anni e vive senza vivere. Deve raccontare come forma umanoide di tolleranza verso se stesso.

E dal suo racconto comprendiamo non soltanto il dolore esistenziale ma anche quello universale di chi ha perso la vita e dunque l’identità, è la terra a soffrirne e l’aria e un’intera nazione.

Come la guardia del corpo speciale che uccide con convinte e ripetute pugnalate. Perché nei film basta colpire una volta per fare stramazzare il malcapitato per terra e invece questo adolescente appura che così non è. La descrizione dell’omicidio è difficile da accettare, fatta di una violenza crassa e stomachevole. Vanja colpisce, colpisce e quel corpo vacilla ma si riprende. Il lettore viene chiamato in causa e messo duramente alla prova. Costretto a seguire ogni fase del delitto senza potersi esimere perché Žmirić invoca il fascino del male.

E poi c’è la morte di Ratko Štifanič, che viene da Poreč e a cui il governo Mussolini impone il nome di Guerino Stefani, da Parenzo. Anziché piegarsi al volere della dittatura Ratko si ribella, viene torturato, imprigionato, umiliato, ma l’uomo non si sottomette, fino alla fine.

Le morti scandiscono un frangente storico che comprende le fasi alterne di una caduta e l’asse ideologico di un intero continente.

Attraverso le vicende di Vanja Kovačević Žmirić tratteggia l’affresco di un tempo, con la sua moralità e gli usi, le leggi, le strategie, l’economia, la visione completa di un’era a portata di mano per essere sezionata nel laboratorio personale di ognuno di noi.

Il rischio è quello di chiedersi a un certo punto: “Chi è in realtà il matto qui?”.

Non si esce indenni dal confronto con Vanja. Questo nome viene dal greco Ioannes, “che a sua volta è una variante dell’ebraico Yochanan” e per una strana ironia della sorte si crea uno sfrontato gioco di significanze: “Vanja potrebbe essere sintetizzato in Dio è misericordioso.

Ma il Dio di Vanja non ha dimenticato e all’uomo non resterà che dimorare assieme ai suoi fantasmi mentre intona “Lucretia” dei The Sisters of Mercy.
Lucrezia, il mio riflesso, balla il fantasma con me…

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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