Quale che sia la ragione della dimenticanza, un deciso livellamento verso scenari letterari abusati o sicuri orizzonti di malcelata repulsione contro il femminismo impegnato, fatto sta che dell’opera di Laudomia Bonanni se n’era persa traccia.
Scrittrice aquilana di tormentata e pervasiva visione, era stata apprezzata da poeti come Montale, che a proposito dell’autrice diceva: “Ho qui il libro di una sconosciuta, Laudomia Bonanni. È uscito da un concorso, ha vinto un premio letterario. Io diffido dei premi letterari, ma debbo riconoscere che esistono eccezioni e che questa Laudomia meritava veramente di essere tolta dall’ombra. Rivela una forza di narratrice che non dovrebbe fermarsi qui. Farà molta strada”.
Ne fece, effettivamente, basti pensare che con “Il fosso” vinse il Premio Bagutta nel 1950 e fu la prima volta per una donna. Con “L’imputata” vinse il Viareggio e con “L’adultera” il Premio Selezione Campiello. Eppure questo non le impedì di scivolare nell’oscurità.
Sarebbe interessante investigarne le ragioni, soprattutto alla luce delle recenti rivendicazioni femministe che sembrano anni luce distanti dall’impegno della scrittrice abruzzese che, ne “Il bambino di pietra”, uscito per Cliquot nel maggio del 2021, dopo l’edizione Bompiani del 1979 con cui arrivò in finale allo Strega dello stesso anno, abbranca il tema della maternità e della subalternanza della donna con una crudezza e una sincerità sconcertanti.
Sposarsi senza amore, partorire figli, quindi amare perdutamente come si amano solo i figli. Il figlio maschio, gloria e passione delle madri, fanatismo della donna che ha avuto un matrimonio freddo. Non c’è paragone tra le follie che la donna commette per un figlio o per un amante, per il figlio durano tutta la vita.
Più volte Bonanni chiamerà questa donna e la riterrà responsabile principale della propria disfatta. Un rapporto dialogico intenso, schietto, voluto per scandagliare le ragioni intrinseche della condizione femminile. Non c’è il maschio a mortificare, c’è la schiera delle donne della sua vita a sovrintendere al dolore.
C’è un passaggio focale nel testo, quando Bonanni scrive: “Ricordo un episodio. Lo raccontava Ester. Quando nostra madre dovette operarsi per un prolasso (i dopoparto trascurati) e toccò a lei accompagnarla, assisterla. Era appena arrivato Riccardo, quella mattina, corse anche lui in ospedale. Stavano portandola in sala operatoria sulla barella, Ester le teneva una mano. Al momento di entrare, già mezzo anestetizzata ma lucidissima nella parzialità dei suoi affetti, lasciata la mano della figlia e rivolgendosi alle infermiere, disse perentoria: Date il caffè a mio figlio”.
Bonanni non si nasconde nel vittimismo di certe femministe vocaliche odierne, ma denuncia le sue simili, le chiama in causa, evidenziando le origini delle disuguaglianze.
Donna e scrittrice volitiva, crea un personaggio, Cassandra, che in prima persona tenta un recupero della propria storia passata compiendo un viaggio a ritroso, nella memoria oscura, alla ricerca delle ragioni del suo male esistenziale.
La maternità rifiutata parla come un oracolo che ha già prefigurato un destino. Come la Cassandra eschilea profetizzava, vedeva il futuro senza essere creduta, così è la Cassandra di Bonanni, capace d’introspezione e di tessere le trame a venire andando indietro nel tempo. Due Cassandre rovesciate perché speculari, forti del ruolo e della colpa, ardite e sincere amanti, intrepide e inquiete analiste dell’umano.
Cassandra diviene per tutti Sandra, quasi a dimezzarne il potenziale, in un contesto di potere matriarcale che tutto ha deciso, che tutto ha delineato.
Ed è di quel bambino di pietra che la protagonista vuole liberarsi, di quel litopedio. Ne aveva sentito parlare attraverso un fatto di cronaca. Un rarissimo caso di calcificazione fetale, una donna di Torino operata d’urgenza si libera di un corpicino “che sembrava fatto di alabastro”.
Un incombente dovere devozionale in virtù della femminilità a tutto tondo in cui non crede. Una donna è tale anche senza avere avuto figli e la sua importanza e il suo spirito non decadono in assenza di prole.
L’irreducibile paura della maternità? Rimozione? Avrò rimosso il bambino da cui ero ossessionata e traumatizzata? Il figlio rimasto inespresso come un feto calcificato? Questo il blocco che ho portato dentro: l’immaginario bambino di pietra?
Qual è il blocco dentro di noi? Quanti bambini di pietra devono ancora essere distrutti? Laudomia Bonanni scrive come se fossero le sue ultime parole. L’incisività dello stile è cifra personalissima, combattuta, voluta, vinta. La parola vibra, s’innalza come per l’anatema di una sacerdotessa dell’occulto e colpisce nel punto cogente in cui si apre alla coscienza delle cose.
C’è ancora bisogno della scrittura di Laudomia Bonanni e l’augurio è che Cliquot la pubblichi ancora, che la sua letteratura affardellata e legata al mito non possa spegnersi mai.