L’insurrezione violata

L’insurrezione violata

Appare inconsueta la trattazione di un’adolescenza ribelle nel panorama sociale a cui siamo soliti prestare ascolto. Ancor più se si tratta di letteratura, dove una storia risulta di larga diffusione se acquieta, consola, solidifica certezze, illude, si prostituisce al mercato al ribasso.
Eppure José Ovejero, scrittore madrileno, laureato in geografia e storia, che ha vissuto tra Bruxelles e la Germania, insignito di numerosi riconoscimenti tra cui il prestigioso “Premio Alfaguara de Novela” per “L’invenzione dell’amore”, ha sempre camminato al limite dell’abisso, non gratificando gli appetiti modesti ma applicando in scrittura l’evidenza di una ricerca sincera che risuona più o meno come un passo del Vangelo: “… non sono venuto a metter pace, ma spada”.

L’ultimo testo uscito in Italia per l’editrice Voland, con la rilucente traduzione di Bruno Arpaia, porta un titolo emblematico: “Insurrezione”. Perché è l’atto subitaneo di chi insorge, non già di chi ha concertato una strategia rivoluzionaria. Insurrezione è il moto spontaneo, rivoluzione è il cambiamento di un assetto costituito.
Sembra che Ovejero abbia deciso deliberatamente di fissare la propria attenzione sulla scintilla che genera rivolta, e il suo punto di vista elettivo è l’azione di una diciassettenne, Ana, figlia di Aitor, un professionista di mezz’età nel settore radiofonico, e Isabel, una donna che pensa di riscattare l’inquinamento dell’ambiente producendo borse con materiali riciclati. Aitor e Isabel sono una coppia divorziata che ha fondato il proprio matrimonio su basi poco chiare persino ai due. Nel momento della separazione i figli Ana e Louis hanno deciso di vivere col padre. Ciascuno dei componenti della famiglia non comunica e se lo fa non si comprende. Il mostro collettivo che hanno creato si riverbera nelle dinamiche di una società completamente sdraiata, in cui Ovejero articola la sua complessa quanto affascinante ricerca del punto di non ritorno.
Il rischio in storie come questa è l’autoassolvimento, la deresponsabilizzazione, il finale pacificatorio, l’acquiescenza. Invece Ovejero forza il meccanismo accusatorio mostrando le falle di un falso equilibrio sociale in cui nessuno si salva. Tutti i personaggi, sia i comprimari che le comparse, si rifiutano di vedere, forti di sterili giaculatorie che hanno come unico risultato l’evitamento, la dilazione e la negazione.

Quando Ana scappa da casa incontra Alfon, un uomo maturo con il quale s’impegna in una sorta di comune in cui concertare atti sovversivi. Quanto è radicata l’insurrezione nel gruppo di anarchici? Perché sembra essere questa la domanda cardine del tema ovejeriano e cioè la consapevolezza di una direzione nuova in virtù di una condivisione sociale e non come moto di risposta alle proprie crisi familiari. La forma di ribellione di Louis sarà scappare negli Stati Uniti grazie a una borsa di studio. Ana resterà a El Agujero, continuando nei suoi propositi di lotta al sistema. Ma fino a che punto un’insurrezione può definirsi tale? Quali sono i presupposti di partenza che ne definiscono l’azione successiva?
Ovejero utilizza una lingua stretta e muscolare quando incalza l’evento sovversivo, alternandola a un’arrendevolezza speculativa quando a parlare è Aitor, con tutto il suo bagaglio di frustrazioni e scuse con le quali ha dimenticato il suo passato ribelle.
Aitor si è semplicemente imborghesito, ha fatto di più, si è conformato illudendosi che questo bastasse a soddisfare la sua sete di assoluto.
Come lui anche Javier, l’investigatore assoldato dalla coppia di genitori dell’adolescente, cerca il suo autoassolvimento ricattando i clienti ma poi pentendosi e rimanendo nel gorgo confuso delle sue aspirazioni.

Ho quarantasette anni. Un’età in cui dovrei dare un nuovo impulso alla mia carriera, dribblare la routine, crescere, allargarmi. E guardami (no, non mi guardi, non mi vedi, non mi senti), come un pensionato, a camminare per la città senza saper bene dove vado mentre converso con dei fantasmi. Avrei potuto avere una vita tranquilla, senza questo logorio non necessario. Senza questa umiliazione. Senza questa rabbia che devo ingoiare perché non so nemmeno contro chi sputarla.

Quello di Aitor è il ritratto di una società che rifiuta l’evidenza di una vita completamente sottomessa alla catena di montaggio, illudendosi di riscattarla. Quella di Ana è invece la posizione di chi agisce d’impulso, nell’ingenuità dell’adolescenza che non può contemplare una visione d’insieme.

Ana sente l’eccitazione per il cambiamento, per quel grande evento che si approssima sebbene in pochissimi lo sospettino. E lei sarà parte di quel cambiamento. Il mondo come lo conosciamo sta dando i suoi ultimi colpi di coda. […] Ha bisogno di un segnale, nient’altro. E allora brucerà, come dice Alfon, la biblioteca di Alessandria, l’accumulo dei saperi inutili. Tutto brucerà e lei ha già il cerino in mano.

Ma in fondo l’insurrezione violata è l’unica possibile, perché “non c’è utopia peggiore di quella che si realizza”.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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