Quello che fa Vincenzo Gambardella nel suo ultimo libro “Soluzione dei problemi del vento”, pubblicato dalla casa editrice “ad est dell’equatore” è di non preoccuparsi del finale di ogni racconto. L’ansia della conclusione svanisce nei luoghi dell’azione: la costiera amalfitana. Ogni luogo è archeologico, nel senso che l’autore ci fa sentire per mezzo dei suoi personaggi le generazioni e le azioni di chi li ha preceduti. Ciascuno dei protagonisti, che si tratti del padre dello scrittore, di un sagrestano, di un gruppo di ragazzi o di un restauratore, ha con lo spazio un rapporto di conoscenza e di dipendenza.
Il potenziale del luogo è di per sé propulsione e origine, meraviglia e cognizione. Ingabbiati nella foce natale o semplicemente costretti a viverne tutte le conseguenze, il sito dell’azione scenica è esso stesso destino dei personaggi e personaggio di per sé.
Non a caso in epigrafe lo scrittore ha scelto una frase di Henry Thoreau: “Convincimi che lì hai una semente, e sarò pronto ad aspettarmi meraviglie”.
In “santa maria dell’olearia” un restauratore, alle prese con un Cristo, resta prigioniero dell’estasi del suo corpo martoriato sino a incarnarlo e con quello tutti gli elementi della natura, compreso il fuoco che divampa sui monti, strutturano una consunzione che è esperienza della meraviglia.
E mentre guardo le vampe luminose nel buio, m’immedesimo in quello spettacolo fiammeggiante, quindi sto nell’idea della montagna, nell’idea del rogo che distrugge, nell’idea della roccia, nell’idea del fiore che si torce insieme al ramo che si incenerisce, nell’idea del pioppo che ha generato il Cristo e muore, sto nell’erba che si macera, nell’uccello che vola via, nella morte che continua a gemere.
La forza primigenia dei luoghi connatura un destino che non libera, che non risolve. Come accade al protagonista di “la banca di amalfi”, che ritorna nel palazzo che fu suo, insieme al suo fido Agatino, per riprendere una cassetta di gioielli, appartenuta alla moglie Agnese, un’americana che cambiò nome e si trasferì in Italia per stare con lui.
Gli avvenimenti scavano un solco che non scompare più, e si decide tutto in quel solco, l’esistenza finisce tutta in un solco, che rappresenta il destino. Io lo so.
La parola ha un altare privilegiato nella prosa di Gambardella, si fa carne e trasfigurazione. Lo scrittore abbranca il ritmo, ne fa gioco personale, stilizza l’azione, esalta la musicalità della frase introducendovi dialetto e vezzo e riserva alla poesia l’attenzione che un monaco dedica alla preghiera.
Se segui la stella polare,
attraverso vie d’acqua
e sorgenti luminose,
il tuo destino è navigare
affrontare le correnti marine,
il riflesso dell’onda,
l’andare e il venire
di quella sempre nuova armonia
che ti sfugge.
L’Altrove è terra agognata e mai raggiunta. Non resta che il sogno, e ne “i due poeti” Gambardella esprime appieno l’idea d’irraggiungibilità della vita, che sfugge nel momento stesso della sua realizzazione.
Quello che si è visto non torna più, resta immobile, ma lo sguardo lo rende perenne.
Vi è una visione opaca che tenta sempre di divenire grandangolo, inquadratura laterale a significare prospettiva. E una malinconia occulta, un tragico umorismo pirandelliano, una solitudine luminosa portatrice d’eternità ritrovata.
E se il gioco dell’identità cristallizza l’azione, non v’è possibilità di chiarire l’orizzonte esistenziale. Solo la genuinità dei luoghi, della costiera amalfitana, con le sue luci e la pastosità degli intenti risulta più sincera di qualsiasi verità rivelata.