Se la dittatura dei numeri ha soppiantato l’idea di qualità di un prodotto, qualsiasi esso sia, e a maggior ragione quando si tratta di arte, capita sempre più spesso che il merito non venga riconosciuto.
Questa è la volta di Emma Dante, che dalla sua bacheca facebook, si rammarica del fatto che al suo ultimo film non sia stata data la possibilità di esistere. Uscito già abortito in quattro sale italiane, probabilmente è stato cancellato dalle programmazioni.
La regista chiama in causa le categorie della diversità, molteplicità, difformità, dell’investimento che, una volta, vedeva garantite, a dispetto di una mancata richiesta del pubblico, le prerogative di strenua difesa della ricerca, del cinema d’essai, “c’era la convinzione che un certo tipo di film o un certo genere di spettacolo dovevano essere protetti a tutti i costi anche solo per una o due persone che ne avessero bisogno”.
Ciò che vale per il cinema e il teatro vale anche per l’editoria e i libri. Se un testo non soddisfa le richieste e gli obiettivi immediati della distribuzione e delle librerie finisce nel dimenticatoio di un magazzino per poi passare al macero. E lo sappiamo: se non lo vedi non esiste. La produttività a scapito della qualità dell’arte.
Sin qui filiamo paralleli con la Dante. Poi però occorrerebbe aggiungere che il vero problema è il pubblico e anziché vezzeggiarlo ruffianamente o risparmiargli le critiche, bisognerebbe tirarlo in ballo con strategie mirate alla rialfabetizzazione di un popolo sempre più ignorante e vicino all’elementarità. Perché di questo si tratta, cara Emma Dante, dell’incapacità dei più di entrare in connessione con ciò che non è routinario, semplicistico tipo slogan, emotivamente spinto, banale, da cliché, con personaggi bidimensionali, argomenti di cronaca infarciti di gossip. L’analfabetismo funzionale, che ormai caratterizza 7 italiani su 10 (dati rilevati all’epoca da Tullio De Mauro), non lo puoi snobbare, te ne devi fare carico, perché in un’epoca in cui i trasmettitori sono diventati quasi totalità e i ricevitori sono più rari dei panda (la cui ripopolazione è avvenuta con successo), ti devi interrogare sulla base della codifica.
È ormai assodato che ci sia una grande difficoltà, da parte della maggioranza, a costruire contenuti complessi, così come è venuto fuori dal progetto UniverS-Ita, “un lungo lavoro di ricerca coordinato da Nicola Grandi, direttore del dipartimento di filologia classica e italianistica dell’Alma Mater, per capire quale sia lo stato della conoscenza dell’italiano tra chi frequenta l’università”.
In pratica l’esperimento, che ha coinvolto 2137 universitari da 45 atenei, ha dimostrato come gli studenti possiedano un lessico appropriato, sappiano scrivere ma non siano in grado di produrre un testo complesso. E se non sanno produrlo è ragionevole pensare che in primis non sappiano interagirvi, codificarlo. Ricordo che stiamo parlando di studenti universitari.
Roberto Calasso ne “L’impronta dell’editore” (Adelphi 2013) così scriveva: “il manager editoriale ritiene di essere il rappresentante di una dottrina universale che si applica a tutto, e i cui risultati vanno valutati, come per ogni branca della sua dottrina, sulla base di numeri che appaiono in fondo a certe colonne di altri numeri”.
“Il vero editore”, continua ancora Calasso, “è quello che ha l’insolenza di pretendere che, in linea di principio, nessuno dei suoi libri caschi dalle mani di qualsiasi lettore, per via del tedio o di un invincibile sentimento di estraneità”.
Sentimento che oggi assume i connotati di una vera e propria deriva da analfabetismo funzionale, che limita la capacità di comprensione, valutazione, uso e coinvolgimento attraverso un testo scritto per sviluppare conoscenze e potenzialità.
Perciò prendersi la briga di essere onesti e rivolgersi al proprio pubblico ammonendolo e educandolo a comprendere la complessità è l’unica via in un paese di vecchia cultura polverosa e d’inane strategia politico-amministrativa.
È diminuita molto la capacità di comprendere e formulare un pensiero complesso, quasi non c’è più il piacere di leggere, e se non leggi non ti sai esprimere. L’uso poi sui social di faccine e disegnini ci evita di formulare un pensiero, anche semplice. Così si perde l’uso della parola.