Viaggio nell’Orrore: dal gotico al southern gothic – III puntata

Viaggio nell’Orrore: dal gotico al southern gothic – III puntata

La precedente puntata del viaggio

Infine, declinazione nuovissima del gotico è il cosiddetto southern gothic che pare percorrere, grazie ai suoi tre scrittori statunitensi di riferimento William Faulkner, Flannery O’Connor e Cormac McCarthy, una sua strada letteraria. Questo genere infatti ha ambientazione e temi propri – religiosi, sociali, territoriali – degli Stati del Sud degli USA; come l’ossessione per la religione cattolica che per il suo fanatismo si rende ironicamente spaventosa.
Accade ne “Il cielo è dei violenti” (1960) della O’Connor, in cui i personaggi- tra cui il folle profeta Mason Tarwater – si disperano minacciati da una travolgente necessità di dimostrare agli altri l’esistenza di Dio. Accade infatti che nell’opera il vecchio Mason Tarwater, prozio del giovane Francis Marion Tarwater, voglia indottrinare quest’ultimo, sin da piccolo, in una baracca nei boschi. Un posto eremitico. Lontani entrambi dall’intrusione di ideologie opposte rispetto a quella cristiana, in quel clima oppressivo in cui la lingua della O’Connor si dimostra una delle più originali in virtù di una sua sorta di furia biblica necessaria per convertire il povero personaggio del suo libro.
Nell’opera si leggono dilemmi religiosi che in tutti i lavori della O’Connor diventano letteratura o tediano le coscienze dei personaggi. Ne “Il cielo è dei violenti” leggiamo i dilemmi di chi è Cristo, il dilemma dell’influsso velenoso che l’eccessiva credenza in Gesù può creare nello spirito dei cattolici fanatici, e il dilemma di che potere e “sapore sacro” abbia l’ostia:

Infine, declinazione nuovissima del gotico è il cosiddetto southern gothic che pare percorrere, grazie ai suoi tre scrittori statunitensi di riferimento William Faulkner, Flannery O’Connor e Cormac McCarthy, una sua strada letteraria. Questo genere infatti ha ambientazione e temi propri – religiosi, sociali, territoriali – degli Stati del Sud degli USA; come l’ossessione per la religione cattolica che per il suo fanatismo si rende ironicamente spaventosa.
Accade ne “Il cielo è dei violenti” (1960) della O’Connor, in cui i personaggi- tra cui il folle profeta Mason Tarwater – si disperano minacciati da una travolgente necessità di dimostrare agli altri l’esistenza di Dio. Accade infatti che nell’opera il vecchio Mason Tarwater, prozio del giovane Francis Marion Tarwater, voglia indottrinare quest’ultimo, sin da piccolo, in una baracca nei boschi. Un posto eremitico. Lontani entrambi dall’intrusione di ideologie opposte rispetto a quella cristiana, in quel clima oppressivo in cui la lingua della O’Connor si dimostra una delle più originali in virtù di una sua sorta di furia biblica necessaria per convertire il povero personaggio del suo libro.
Nell’opera si leggono dilemmi religiosi che in tutti i lavori della O’Connor diventano letteratura o tediano le coscienze dei personaggi. Ne “Il cielo è dei violenti” leggiamo i dilemmi di chi è Cristo, il dilemma dell’influsso velenoso che l’eccessiva credenza in Gesù può creare nello spirito dei cattolici fanatici, e il dilemma di che potere e “sapore sacro” abbia l’ostia:

Rayber sentì di nuovo il sapore della sua sofferenza infantile contro la lingua, come un’ostia amara.

Questi rebus avvolgono il romanzo di quel terrore che favorisce uno dei tre elementi del southern gothic, ovvero, come detto, il fanatismo religioso. Un passo, più lucido e privo di deliri travolgenti, prova a riassumere, si spera più chiaramente, quest’ultimo elemento.
Eccolo:

Allora il ragazzo sentiva un cupo malumore insinuarglisi dentro, sentiva montare in sé un caldo risentimento al pensiero che la libertà avesse a che fare con Gesù, e che Gesù dovesse essere essere il Signore. – Gesù è il pane della vita, – diceva il vecchio. Il ragazzo, sconcertato, distoglieva gli occhi e guardava lontano, oltre la linea azzurro cupo degli alberi, dove si stendeva il mondo, nascosto e a suo agio.

In definitiva, la lingua della O’Connor a volte pare un “nero sermone” per installare domande e dubbi. Un sermone a contrario rispetto ai classici, positivi e fondati su una morale cattolica risolutiva e costruittiva. Un linguaggio, quello della scrittrice di Savannah, che però serve a mostrarci “quell’abbuffata di Dio” di cui i protagonisti de “Il cielo è dei violenti” dovrebbero capirne il rischio che parafrasato è tale: “misurate la parola di Gesù perché potrebbe condurvi, una sua scorpacciata, alla venerazione del Diavolo stesso”.

Era inutile trattare con lui, diceva il vecchio; il suo cervello era viscido come i suoi occhi, e la verità non vi penetrava più di quanto la pioggia penetri nel ferro. Il maestro, che aveva sangue Tarwater, se non altro non era identico a suo padre. – Nelle sue vene scorre buon sangue, – diceva il vecchio -. – E il buon sangue conosce il Signore, e se lo si ha non c’è niente da fare. Non c’è un mezzo al mondo per liberarsene.

Di là dal fanatismo religioso di un improprio uso dei brocardi del cristianesimo, al confine si trova il secondo elemento del southern gothic, che è il terrore di Dio attraverso un’esclusiva lettura biblico-apocalittica della realtà.
È il caso di tutti i lavori di Cormac McCarthy, fino al recente “La strada” (2006) in cui l’Apocalisse è già accaduta e il mondo nel suo stadio successivo cerca di  descriversi grazie alla sola voce di un padre e di un figlio che camminano lungo un’America desertificata, dentro una Terra ormai lontana dalla luce di Dio. La lingua qui è spoglia e scheletrica concordemente alla vitalità della luce che lo scrittore non esita a descrivere di perenne grigiore. È ridotta e ha il suono di una pena capitale spesso intervallata da un periodare cataclismico e premonitore. Gli elementi stessi della vita non sono più cose naturali ma cose astratte, figure di idoli:

Nevica, disse il bambino. Guardò il cielo. Un unico fiocco grigio che planava leggero. Lo prese in mano e lo guardò disfarsi come se fosse l’ultima ostia della cristianità.

Ma se questa lingua scheletrica ha nella Post-Apocalisse, il suo territorio, non è dello stesso tenore nel romanzo più complesso, il classico di McCarthy, Suttree(1979).
Il protagonista, da cui prende il nome l’opera, abita a Knoxville, Tennessee, vive nel mondo dei reietti e in quell’impero oscuro si confessa con se stesso e con la sua utilità umana – pesca, ma pesca specie di pesci orribili – in un’area dove Dio sembra non essere mai passato. Questa decadenza della luce, e quindi dell’assenza della Luce – che nella Genesi è la prima azione di Dio – è stavolta, rispetto agli ambienti ampi de La strada, nei luoghi dei dimenticati, degli ubriaconi, dei pescatori delle paludi, delle bettole, delle botteghe luride. Posti in cui si consuma la vita di Cornelius Suttree. Che già in questa sorta di Genesi “al contrario” McCarthy mette in evidenza. E tenebre furono, insomma.

Caro amico adesso nelle polverose ore senza tempo della città quando le strade si stendono scure e fumanti nella scia delle autoinnaffiatrici e adesso che l’ubriaco e il senzatetto si sono arenati al riparo di muri nei vicoli o nei terreni incolti e i gatti avanzano scarni e ingobbiti in questi lugubri dintorni, adesso in questi corridoi selciati o acciottolati neri di fuliggine dove l’ombra dei fili della luce disegna arpe gotiche sulle porte degli scantinati non camminerà anima viva all’infuori di te.

Ma per descrivere questa “Tenebra genetica”, inclassificabile, che plasma il libro, McCarthy si serve di una lingua assai complicata, metaforica, litànica, una dei più potenti congegni del southern gothic. Basta un frammento a caso per accorgersene, ché ogni pagina non cessa di essere densa come il limo in cui campa Suttree:

All’altro capo della cala un serpente muso di porco rincagnato e rigonfio dormiva arrotolato tra i resti essiccati di uno schifo.

Non meno essenziale è William Faulkner, il quale nella sua inventata contea di Yoknapatawpha ha fondato le storie del suo scrivere. Saghe di famiglie rurali, questioni razziali insolute, vite sommerse vittime di acrimonie tra dinastie che non cessano, e personaggi dalla fascinosa caratterizzazione umbratile. Elementi quest’ultimi che presagirebbero una dinamica narrativa realista ma che, invece, grazie a una lingua potente, implacabile, disconnessa e lontana da una regolarità sintattica – sembra un cammino di ombre che sovrastano altre ombre – fonda una metafisica nel Sud letterario prima mai esistita.
Mentre morivo” (1930) ne è dimostrazione. Le cose, gli oggetti stessi, sembrano siano stati catapultati da un altro mondo mentre vengono descritti. La trama è congeniale per questa “spiritualità buia”: deve essere condotta una bara, contenente Addie (madre e moglie) della famiglia Bundren, verso la lontana Jefferson, dentro un carro malandato.  In quest’opera si realizza l’ultimo elemento terrorizzante del southern gothic, ovvero il territorio rurale, ampio, sconfinato, attraversato, del Sud, che è paesaggio e sentiero funebre a causa della sua estensione a perdita d’occhio, al punto di essere teatro delle gesta dei campagnoli psicopompi del libro, cioè Cash, Darl, Jewel, Dewey Dell e Vardaman, figli di Addie.  
E per spiegare questo viaggio con la morta, Faulkner si fa stilisticamente ancor più criptico, visionario e per nulla scontato. Perché il dolore verso chi non c’è più non può essere risolto con la semplicità di una lingua comprensibile, ma il più possibile distante dalla sua commerciabilità interpretativa.
Anche in una scena, la quale è adatta per concludere il nostro viaggio dell’Orrore, in cui la bara oggetto supremo del romanzo ora viene disegnata e associata, per forma, a un orologio a pendolo. In Faulkner il tempo della morte è il tempo in cui si fonda la sua opera e in cui vive la protagonista del libro: una defunta, appunto.

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Scritto da
Orazio Labbate
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