Molto più ragionato, e proprio per questa sua maniera metodica di scrivere, assai inquietante, è il gotico di Nathaniel Hawthorne, scrittore statunitense dell’Ottocento, nato a Salem, la città dei processi alle streghe.
Il suo gotico è pervaso da quel terrificante perturbamento che l’esagerato ordine morale insegnato dal puritanesimo diffondeva nelle cittadine del New England. I personaggi sono allora lontani dalla realtà, la loro vita è come strozzata dalla sola attesa del Giudizio finale. Il Bene e il Male sono dovunque; perciò, incomprese e sottomesse a quella religione soffocante, le persone si alienano per in qualche modo ritrovare la vita, come si legge principalmente nella produzione di racconti dello scrittore di Salem. È il caso della novella “Il velo nero del pastore”, che fa parte della raccolta “Racconti raccontati due volte” (1837), in cui Hooper, il reverendo, ha il volto sempre coperto da un crespo scuro fino alla sua morte.
Nei racconti, i tempi della narrazione di Hawthorne, poiché si riferiscono a un preciso periodo storico, e forse soprattutto per questo conchiuso spazio temporale, sembrano asfissianti e conducono i personaggi a una tragica pietà verso un Dio oserei dire incombente – attorno alle loro anime – come un demone affamato.
Il pastore Hooper diventa così una creatura dell’assenza e del silenzio, che recita cerimonie non più credibili. Assume paradossalmente un ruolo indefinito, come i fedeli della sua cittadina, Milford, che sono sgomenti, che osservano il volto velato di Hooper, senza più avere un Padre religioso a cui appellarsi per la salvezza del loro spirito: “ancora velato lo adagiarono nella bara e fu un cadavere velato quello che portarono alla tomba“.
Il Diavolo, e la stregoneria, tanto esorcizzati con furioso estremismo in quel tempo, camminano attorno all’aura dei protagonisti delle novelle di Hawthorne. L’atmosfera è già sulfurea senza nessuna manifestazione concreta di Satana, senza nessuna esaltazione corporea dei demoni. Il Diavolo sorveglia. Non c’è differenza – come spiegato – tra Dio e demone. E quindi la sensazione predominante è che ci si trovi al cospetto di un funerale e mai davanti alla nascita di una luce o di un fatto positivo. Come nel racconto “Bozzetti notturni” in cui la voce narrante segue una direzione quasi impostagli demonicamente, sino ad arrivare ai “limiti estremi della città, dove l’ultimo lampione lotta fievolmente con le tenebre, come la più lontana stella che sta di sentinella ai confini dello spazio non creato.”
Tenebra che potrebbe essere sconfitta solo con la Fede, la stessa salda Fede che il reverendo Hooper pare però aver seppellito assieme a sé stesso.
A dispetto dei racconti in cui il Diavolo veglia senza che nessuno lo abbia scatenato, nel romanzo “La casa dei sette abbaini” (1851) il Diavolo si invoca a causa della maledizione del luogo e attraverso le parole.
Il libro narra le vicende di una casa “infestata” per origine (sorgeva su un terreno che conduceva a un sentiero da capre), e per la sua storia, giacché fu impiccato il proprietario di essa, un tal Maule, per stregoneria per ordine del colonnello Pyncheon.
È proprio durante l’impiccagione – ecco l’invocatio diaboli – che Maule scaglia il sortilegio sanguinoso in direzione del colonnello e della sua stirpe che dimorerà in quella casa: “Iddio gli farà bere il sangue!”, dice Maule presto appeso.
Le questioni diaboliche sono qui affrontate sotto l’egida di una storia amplissima, scritta sempre con una lingua troppo perfetta, regolata e forte (fondamentali la dottrina e le letture bibliche di cui si nutriva Hawthorne), tanto da produrre – come nei racconti – l’ansia di una insormontabile maledizione, di una vendetta divina, di una folgore ultimativa proveniente dai Cieli:
Non si trattava semplicemente del tremito che quelle raffiche spietate davano al suo corpo, sebbene non avesse mai provato un freddo micidiale come quello, specialmente alle mani e ai piedi; era piuttosto una sensazione morale a fonderi con l’infreddolimento fisico e a farla tremare più nello spirito che nel corpo. L’atmosfera esplicita e squallida del mondo era così squallida!
La parola allora serve, sembra stavolta dirci Hawthorne in quest’opera, per chiamare il Diavolo e non per invocare il perdono di Dio tramite la Fede.
Lungo la scia di una singolare letteratura gotica che dimostra la sua forza tramite una lingua sibillina – e uno scenario imprecisato – è annoverabile Franz Kafka.
Così è nel suo romanzo “Il Castello” (1926), oppure nei racconti; per citarne tre: La metamorfosi, Di notte, e Rinuncia.
Si legga subito un pezzo de Il Castello per provare questo perturbamento emozionale in cui sembriamo sottomessi agli ordini di un Padrone tenebroso che non ha nome e che non fa parte, si badi, di nessuna religione:
Il giovane si scusò molto gentilmente di aver svegliato K., si presentò come figlio del custode del castello, poi disse: «Questo paese appartiene al castello, chi vi abita o pernotta in certo modo abita e pernotta nel
castello. Nessuno può farlo senza il permesso del conte. Ma lei questo permesso non ce l’ha, o almeno non l’ha esibito».
Il mondo kafkiano è quindi di già mondo astratto, non è per nulla reale. Il suo Padrone non è infatti un essere umano né il Dio cristiano. Kafka, lo scrittore, non lo definisce mai.
Per tale ragione, secondo una logica conseguenza, i figli di quel non-Dio – cioè i personaggi dei lavori kafkiani – sono tutti cose disumane, spiriti o larve surreali: K., l’agrimensore de Il Castello, Gregor Samsa, impiegato-insetto de La Metamorfosi.
Le loro abitazioni sono collocate nella non-esistenza. La casa e la stanza di Gregor Samsa potrebbero essere, chissà, l’Inferno. Lo stesso castello dell’omonimo romanzo è forse l’Aldilà generalmente inteso.
La lingua è silenziosa, probabilmente per rispetto di quell’Underworld: sembra essa stessa, per la sua semplicità e la sua freddezza, un segreto sussurrato. Una sorta di parolina spiata all’orecchio che viene tramandata da uditore a uditore. La parolina via via ingrosserà, fino al finale del libro o della storia, in cui diventerà forte come una morale che però risulterà incompresa dal lettore; sarà, in definitiva, un patibolo perché enigmatica nonostante la narrazione si sia ultimata.
In “Di notte”, infatti si legge:
E tu sei sveglio, sei uno dei custodi, trovi il prossimo agitando il legno acceso nel mucchio di stipe acconto a te. Perché vegli? Uno deve vegliare, dicono. Uno deve essere presente.
Sembra quasi un indovinello che, qualora venisse svelato, potrebbe produrre una sorta di dubbio empirico sulla propria esistenza. Qui la paura proviene da un disorientamento. Da un alfabeto, che seppur leggibile, non ci viene concesso di interpretarlo.
Kafka è, alla fine dei giochi, mai capibile e in virtù di questo provoca uno specialissimo – solo di sua originale impronta – perturbamento nel territorio del Gotico.
In “Rinuncia”, altra novella, che è più una sentenza, accade lo stesso. La parola si vuole prestare ad un’attività anagogica quasi fosse un testo sacro. E difatti alla fine, per la sua categoricità, ha la potenza di una affermazione apocalittica, ancora impossibile – come tutte le Apocalissi – da decifrare:
“Egli sorrise e disse:
“Da me vuoi sapere la via?”
“Appunto” risposi “dato che non so trovarla da me.”
“Rinuncia, rinuncia!” E si girò con grande slancio, come chi vuol essere solo con la propria risata.
Non ci resta che accettare una nostra eventuale orribile inesistenza, suggerirebbe lo scrittore di Praga.
Tuttavia, oltre quel gotico kafkiano che si situa in un sentiero mediano tra gotico classico e Horror, uno stacco netto dalla sublime vetustà della prima categoria – dunque dalla sua lingua solenne e dalla struttura elementare – è stato attuato dal re dell’Horror moderno Stephen King.
Il linguaggio delle sue opere è secco, asciutto – purtuttavia costellato di metafore spesso poetiche – funzionale alla grande storia; lingua, nonostante il suo imperante minimalismo, non per questo scarsa di letterarietà.
L’impianto narrativo è costruito, come in IT (1986) o in Shining (1977), per imprigionare il lettore nel terrore: King edifica una sorta di labirinto fatto di facili “mattoni linguistici abbattibili” talmente ben incassati in mastodontiche architetture da risultare preziosi.
Le storie, nel loro scheletro complesso, non possiedono una trama temporale lineare.
In IT, si procede dai fatti del passato a quelli del presente dei protagonisti del libro, i Perdenti; e così dal presente al passato, con costante irregolarità.
In Shining, da un presente che procede lento fino ad attestarsi in un graduale futuro non percepito tale: i fatti riguardano una buona parte del periodo invernale che la famiglia Torrance trascorre nell’Overlook Hotel.
Questi salti temporali non inficiano il perturbamento che King vuole donare, anzi costringono il lettore ad un’ansia continua.
Per quanto concerne l’elemento tragico della paura – e dei suoi “conduttori soprannaturali” – ha origini e forme diverse nei due romanzi di King.
È già dalla nascita soprannaturale: il pagliaccio demonico, IT, vive nei sotterranei di Derry da quando la città è sorta. Dunque potrebbe essere IT stesso Derry.
Oppure è incarnatasi: Jack Torrance, il protagonista di Shining, viene posseduto dal Male una volta dentro l’infestato Overlook Hotel.
L’infanzia sarà l’esorcismo necessario, in entrambi i romanzi, per sconfiggere i due “conduttori della paura”.
Nel caso di IT l’infanzia però è personificata da un gruppo di ragazzini, i Perdenti, i puri di cuore, che solo se uniti sconfiggono IT.
In Shining, è invece dentro una sola persona, il bambino, Danny, dotato del potere dello scintillìo che rappresenta la chiave per individuare le mosse del Male, il padre Jack Torrance.
Ritornando alla questione linguistica e al suo collegamento con la paura, in IT la lingua, nel raro caso – come detto – si serva di metafore, è addirittura poeticamente filosofica e slabbra l’immaginazione orrifica mentre la si legge. Le circostanze della paura diventano, in tal modo, totalmente infantili perché corrotte dalla bontà della poesia; ciò è chiarito anche solo da questi passi del romanzo:
Ripenso a noi nell’acqua, a tenerci per mano e a promettere di tornare se fosse ricominciato: quasi come druidi in circolo, con le mani che sanguinavano la loro promessa, palmo a palmo. Un rito che è forse antico come il genere umano, un’inconsapevole spina conficcata nell’albero supremo del potere, quello che cresce al confine tra il territorio di tutto ciò che sappiamo e quello di tutto ciò che sospettiamo.
In Shining, invece, il periodare è molto più algido, sicuro, e non ricade nell’elegiaco: la paura e i fatti della paura danno la sensazione, al lettore, di essere interamente adulti. In questo modo King permette di leggere il potere soprannaturale gestito da un bambino come serio, nonché di “concretare” la paura anche nei luoghi: l’hotel isolato, l’Overlook, lontano dalla realtà del mondo esterno; la camera 217, summa dell’infestazione.
L’impresa di un infante è allora degna di importanza. Si provi a leggere, a riprova, questo passo:
Forse in un primo tempo le cose che aveva visto erano davvero simili a illustrazioni inquietanti, ma innocue. Ma ora quelle cose erano passate sotto il controllo dell’albergo e di male ne potevano fare, e come. L’Overlook non aveva permesso che lui andasse da suo padre. Avrebbe potuto rovinargli la festa.
C’è un’ulteriore differenza tra i due romanzi, che riguarda stavolta la paura legata alle abitazioni dei suoi due rappresentanti.
In IT, seppur le fogne di Derry siano il posto-principale dove il mostro dimora, la città intera è posseduta. Il Male allora si disperde ed è questa dispersione, questa intoccabilità – che invece non c’è in Shining – che demoralizza: condanna il lettore a perdersi. Ad impaurirsi come un bambino che tasta il buio cercando di toccare qualcosa di empirico. Qui il labirinto King lo crea in uno spazio dispersivo. I confini cittadini non bastano e così la storia del pagliaccio assassino raccoglie anni e distanzia anni come se il tempo si allungasse anch’esso con lo spavento.
Male che invece in Shining cessa e si conclude in un luogo conchiuso in cui si è effettivamente manifestato. Siamo rinchiusi, terrorizzati, in una prigione pronti ad attendere l’impazzata mossa di Torrance.
Jack Torrance non uscirà però da lì, verrà avvolto dalle fiamme:
Poi la “cosa” nel cielo scomparve e sarebbe anche potuta essere semplice fumo o un grosso frammento ondeggiante di tappezzeria, dopotutto, vi fu solo l’Overlook, rogo ardente nella gola ruggente della notte.
Sempre seguendo l’onda della modernità del gotico sostanziatasi in quella letteratura definita Horror, una sua grande rilevanza ha L’esorcista (1971) di William Peter Blatty.
La primaria ragione è dovuta alla doviziosa trattazione del fenomeno possessorio-demoniaco in una duale prospettiva: quella cattolica degli angeli caduti che si sostituiscono alla volontà del posseduto per tentare di offendere il Dio cattolico; quella scientifica che studia l’accadimento nel campo della medicina.
Il turbamento è ora concreto. Ha una sua identità: Il Male nella persona del primo Maligno di origine cattolica, Satana. Il romanzo incute quella speciale ansia di una ventura, propria, possessione, come accade nell’opera di Blatty alla giovane Regan.
Ma perché si scatenino questi sentimenti contrastanti – religiosi vs scientifici – Blatty non si serve del didascalico o della facilità di una lingua, esegue invece uno stile fulmineo, minimalista e talvolta visionario al punto di dimostrarsi imbevuto di una seria sensibilità circa quel gotico che lui rintraccia anche nell’aneddotica battaglia tra Dio e Lucifero. Come in questo frammento iniziale in cui si introduce velatamente, nel libro, la figura di Padre Lankaster Merrin.“
…E un uomo, le ossa di un uomo. I resti calcificati dell’angoscia cosmica che un giorno l’avevano costretto a chiedersi se, in fondo, la materia non fosse altro che l’annaspare di Lucifero per riconquistare i cieli del suo Dio.
Proprio i personaggi legati alla Fede sono quelli che per la loro dualità, per la loro differenziazione caratteriale, accelerano in noi il processo di terrore.
Il dubbio fideistico di Damien Karras è il veicolo verso la paura dell’assenza di Dio e dunque la conseguente cedevolezza nei confronti delle brame diaboliche. Karras sarà il nostro spavento di essere posseduti. Di ricevere un demone per scarsa credenza e scarse preghiere.
L’unica motivazione radicata nella logica era il silenzio di Dio. Nel mondo c’era il male. E gran parte del male era causata dal dubbio, dalla sincera confessione che assaliva gli uomini di buona volontà. Un Dio ragionevole si sarebbe rifiutato di porre fine a tutto questo? Avrebbe rifiutato di rivelarsi? Avrebbe taciuto davanti a tutto questo?
La lettura ci costringerà a impugnare un crocifisso affinché si esorcizzi con quel simbolo materiale un’eventuale aggressione luciferina.
Seconda faccia della medaglia è invece la coriacea fedeltà alla Parola di Dio da parte del più vetusto Padre Merrin. La paura che il personaggio, e la sua tribolazione, effondono non nascono da un’eventuale possessio diaboli – come avviene col personaggio di Karras – ma da un timore di non ricevere più la sua protezione; Padre Merrin fa le veci di Dio. Il terrore, in questo caso, non dipende dall’influsso di Satana ma dalla morte possibile di colui di cui il demone ha paura.
Sconvolto, Karras si inginocchiò. Rivolto il corpo e vide il viso livido. Sentì il polso. In un istante di lancinante, tagliente angoscia, realizzò che l’esorcista era morto.
In queste righe noi incarniamo il terrore di Karras. Siamo terrorizzati nel ritrovarci al cospetto della posseduta senza un protettore. La scena sembra rivelarci che l’oscurità dobbiamo affrontarla da soli. “L’esorcista” è allora un inno alla fede che l’uomo solo deve tentare di mantenere a denti stretti. Un sentiero lastricato di miscredenza e di particellari dubbi fideistici che alimentano, spesso, pietas verso Dio.