Intervista ad Alessandro De Vito

Intervista ad Alessandro De Vito

Editore “Miraggi Edizioni” insieme a Fabio Mendolicchio e Davide Reina, Alessandro De Vito è traduttore dalla lingua ceca e cura la collana NováVlna, interamente dedicata alla letteratura della Repubblica ceca, di cui è studioso appassionato.
Lo abbiamo intervistato per comprendere il lavoro della casa editrice che dirige e le relative scelte editoriali, nonché per cercare di delineare una visione di ciò che oggi si può definire letteratura e mercato, cioè di cosa rappresenti oggi pubblicare libri e di come questi vengano recepiti dagli addetti ai lavori e dal pubblico dei lettori.

1) Cosa spinge tre professionisti a creare un nuovo soggetto editoriale nel 2010 al Salone del Libro di Torino?

Potremmo dire che nel mezzo del cammin di nostra vita abbiamo scelto la letteratura, o meglio la letteratura ha scelto noi, sottraendoci a un’impasse esistenziale, o almeno questo vale per me. Venivamo tutti e tre da esperienze e formazioni diverse, a ben vedere anche parecchio distanti tra loro, anche se col passare del tempo credo che sia stata proprio l’amalgama di elementi differenti a fare la forza di questa unione, apparentemente non destinata a funzionare e durare. Il fatto è che ci si concentra sempre sull’aspetto letterario, sulle grandi scelte culturali, sugli alti principi, dimenticando che oltre all’aspetto scintillante e nobile l’editoria è fatta di aspetti più “bassi”, o semplicemente reali: si tratta di lavoro, di ruoli, di azienda, di soldi (pochi) e di fatture, bilanci e sguardi ansiosi alla app della propria banca. Si tratta di compromessi, spesso, che vanno gestiti senza sporcarsi, senza abdicare all’idea che ci si propone di avere e mantenere riguardo a quello che si fa, al proprio ideale kantiano, per quanto irraggiungibile (si vede che ho studiato, eh?). Pur ferendosi con la realtà, riempiendosi di lividi, rischiando in prima persona. Rischiando tutto, ma non la faccia, ecco. Potremmo metterla così, ed è senz’altro vero, o anche, più prosaicamente, potremmo dire che volevamo assolutamente lavorare sui libri, e dopo un buon apprendistato in un’altra casa editrice torinese abbiamo presto capito che, data la situazione, non sarebbe stato possibile trasformare questa passione in un lavoro. Intendo del tutto NON possibile, volendo fare certe cose e non altre, non FORSE possibile anche se MOLTO difficile. Allora ci siamo guardati in faccia, abbiamo ritenuto di sapere due cose (delle duemila che da allora abbiamo continuato a imparare, e non finisce certo qui), e sfruttando la tecnologia, cioè il fatto che oggi un libro si può “fare”, bene e professionalmente, con un semplice computer, abbiamo saltato il fosso, preso l’ISBN e cominciato.

2) Cos’è Miraggi Edizioni? Ma soprattutto, che cosa si prefigge e da cosa si differenzia rispetto alle altre case editrici?

È sempre difficile parlare di casa propria, si rischia sempre di essere troppo indulgenti o troppo severi, in ogni caso manca la distanza giusta per giudicare. Miraggi, intanto, è fondata su un aspetto umano, è un patto tra “fratelli diversi”. Nonostante sia stata da subito organizzata abbastanza bene anche come azienda, resistendo a questi 13 anni di crisi permanente e in via di peggioramento, ha mantenuto un po’ lo spirito di una di quelle imprese culturali degli anni Settanta, pur senza implicazioni ideologiche e senza, credo, rigidità particolari. A volte siamo consapevoli che questo ci si possa anche ritorcere contro, in un mondo aziendalista, con capi e sottoposti: siamo un triumvirato, in cui ciascuno mette quello che ha per ottenere una somma più grande dei tre singoli che siamo. A volte, appunto, un capo imporrebbe meglio una decisione immediata, efficace. Mi consolo pensando che potrebbe anche essere la decisione sbagliata…

Tornando al progetto editoriale, non siamo certo gli unici e potrei fare il nome di altre ottime case editrici che stimo, e da cui cerco di imparare. Innanzitutto l’indipendenza, termine che sento spesso usare a sproposito. Indipendenza delle scelte, che è possibile solo quando si sia indipendenti economicamente. Essere padroni del proprio lavoro non è un optional: se usi i mezzi, il denaro di altri, prima o poi dipenderai anche dalle scelte altrui. Credo che da parte del pubblico questo aspetto non sia valutato o conosciuto a sufficienza. Rinunciamo a molto per essere indipendenti, ma se ci volessero “comprare” semplicemente andrei a fare altro, non sarebbe più casa mia. Dal punto di vista della linea editoriale, specialmente negli ultimi anni abbiamo imboccato una strada particolare, con modelli altissimi, a volte irraggiungibili (senza scomodare di nuovo Kant). Se non ci si prova sul serio, come si può però pensare di raggiungere qualche obiettivo? Di lasciare un segno? Di restare? Uno dei punti salienti di tutto il progetto Baskerville, suddiviso in 4 collane, è quello di cercare di pubblicare libri che vorremmo trovare in libreria e che troppo spesso non ci sono. Voci un po’ diverse, punti di vista differenti, attenzione al valore letterario e stilistico, insieme all’aspetto socio-culturale e anche “politico” generale di affrontare alcuni temi secondo noi tralasciati, o trattati troppo tangenzialmente. Tra questi i nodi della storia europea, e ora che la Storia si è brutalmente rimessa in moto, credo sia non solo giusto ma utile far conoscere meglio vicende relegate in canti oscuri, che però influenzano presente e futuro. In questa serietà cerchiamo di mettere anche qualcosa di scanzonato, ironico o meglio irridente, talvolta senza badare più di tanto alla “correttezza”. Perché certo non è con la censura o, peggio, con l’autocensura che si migliora il mondo e la conoscenza di esso, gli si dà solo una mano di vernice rosa.

3) Qual è stata la percezione di gradimento dei lettori?

Per un editore il lettore, o meglio i lettori, sono un’entità indefinita, sicuramente esistente, ma informe, difficilmente afferrabile. A volte, quando lavoro su un libro, su una traduzione, sul mio piccolo scrittoio che in realtà è una macchina da cucire degli anni Trenta, alzo lo sguardo, mi vedo riflesso nello schermo del computer e penso a chi leggerà il libro. A chi non lo capirà, a chi invece si stupirà, e lo calamiterà nell’ambito della sua vita, del suo intimo, magari poi lasciandolo in casa su uno scaffale che tra 30 anni un figlio ancora non nato prenderà in mano chiedendosi di che diavolo si tratti. I lettori li incontriamo durante le presentazioni e nelle fiere. Oltre che sui social, ovviamente: sempre di persone reali si tratta. La novità degli ultimi anni è che alcuni, sempre più numerosi, ritornano, ci vengono a cercare per raccontarci delle loro-nostre letture. E vediamo che questo manipolo piano piano si ingrossa, reagisce alle nuove uscite, ci segue, inizia a fidarsi del marchio, dell’anima che lasciamo tra le pagine. E ci aspettano per un commento, per un ringraziamento, a volte. Non dirò “pochi ma buoni”, perché non sarebbe nemmeno giusto, e poi rispetto a cosa, a quali parametri? Vedo che crescono per numero e consenso, ed è il premio vero di tutta questa immane – e bellissima – fatica.

4) Quanto è difficile destreggiarsi nel mercato quando si è piccoli e difformi?

Tecnicamente siamo nel mercato, chi può dirsene fuori?, esistiamo, ci aggrappiamo ai suoi bordi e a volte riusciamo anche a cogliere qualche occasione. Spesso rimbalziamo sui suoi bordi, un giorno dentro un giorno fuori. È una lotta quotidiana, impari ma inevitabile. Poi dipende da quale aspetto del mercato affrontiamo: ci sono librai d’oro, grazie ai quali abbiamo la prova che anche i nostri libri hanno un pubblico reale, forte, persino relativamente numeroso: sono librai che leggono e apprezzano, che capiscono e che quindi sono in grado di consigliare anche il libro più particolare. Perché il lettore “particolare” entra ancora in libreria. Poi ci sono altri, che probabilmente ci si sono trovati, e un lavoro è sempre meglio che niente. Sulla distribuzione, sul monopolismo, sulle concentrazioni ormai non c’è neppure più bisogno di denunce, è lampante e, quel che è peggio, ritenuto normale se non giusto. È il capitalismo, bellezza! Pazienza, è un peccato nascere in decenni “sbagliati”. Paradossalmente, mi sento di dirlo con mille precauzioni e avvertenze, grazie al passaparola via social media, meno male che esiste il canale diretto dell’acquisto on line, attraverso i portali e soprattutto Amazon. Non è bello ammetterlo, perché conosciamo le criticità poste da quel canale, ma ritengo che uno dei problemi più grossi che ci vediamo è che… lo vediamo, bello sotto i riflettori, mentre della distribuzione unificata (o unica?) nostrana sappiamo ben poco (e mi taccio). Restiamo volentieri con il nostro piccolo distributore, che fa il suo giusto lavoro nello spazio rimasto. Mi tormenta da tempo l’idea di trovare una soluzione alternativa, innovativa, ancora impensata e impensabile. Purtroppo non sono un genio in economia, spiacente.

5) Qual è l’interesse della critica italiana nei confronti della vostra produzione?

Quando riescono a – o possono – interessarsi alle produzioni minori, compresa la nostra, una volta sopravvissuti alla sommersione di novità che affluiscono ogni settimana come da dighe crollate, ai diktat dei giornali, delle redazioni che in modo più o meno stabilito devono riservare lo spazio a mille libri più “grossi”, alcune voci emergono come dalla nebbia. Credo di poter dire che gli apprezzamenti degli addetti ai lavori che riceviamo in privato siano molti di più di quelli a disposizione del pubblico. E sinceri. Avvertiamo la stima, ne siamo molto orgogliosi, ma comprendiamo che sia sempre – è nella logica del sistema – soprattutto una questione di “peso”. Editoriale, di marchio, di nomi… Mi stupisce un po’ di più, visto che resto un ingenuo, un relativo passaggio in silenzio quando pubblichiamo dei grandi autori, come è accaduto per i due libri inediti di Hrabal, ma capisco. Non mi adeguo ma capisco, perché non è solo una questione di bontà dei libri, del progetto e così via.

6) Che importanza riveste la lingua nella scelta delle vostre pubblicazioni?

Rispondo dicendo: forma e sostanza / forma è sostanza. Non credo esista in sé una lingua bella, alta, letteraria, separata da quello che si ha da dire. O almeno a me non interessa la lingua in sé. Credo che esista una lingua giusta per il contenuto, e può essere anche molto semplice, quasi grezza. Il che non significa mai sciatta, banale, semplicistica, didascalica. La bellezza la possiamo trovare, se l’insieme ha senso, nel barocco come in un cubo di cemento bruto. Che poi provate a farlo, un cubo di cemento bruto, che diventi arte.

Quindi nelle nostre scelte editoriali si potranno trovare libri anche molto diversi tra loro, ma che stanno benissimo insieme nel progetto di una collana, per esempio, come quella italiana Scafiblù. E ci è sempre più evidente come il progetto, che a noi stessi a volte è sembrato slegato, sia in realtà granitico, pur nel suo essere insieme variegato. Ed è normale, dato che deriva dalle nostre scelte individuali portate a sintesi. Di questo sono fiero, e credo si possa riconoscere da fuori.

7) Che tipo di linguaggio comprende oggi il lettore medio?

Forse ho un’impressione deviata dal fatto che ci occupiamo del nostro pubblico, reale o supposto, e non del complesso della società. Viviamo, anche fuori dai social, in “bolle”, e non abbiamo grandi possibilità di confronto. Diverso sarebbe se insegnassi, o anche solo se lavorassi col pubblico, come ho fatto in passato. Probabilmente ho una visione un po’ elitaria, credo che oggi come in passato certi libri siano destinati a un pubblico limitato: non tutto è per tutti. A scanso di equivoci, non tutti i libri sono neppure per me, che sono un buon lettore ma non certo un gran letterato. Semplicemente il mercato si è ampliato anche a intere fasce di popolazione che non leggevano affatto (ops!, troppi non leggono neppure ora, nonostante teoricamente siano in grado di farlo…).

Tralasciando un piccolo editore come noi, o altri anche più grandi ma sempre marginali nel panorama nazionale, se e finché esiste una casa editrice come Adelphi, non posso pensare che ci sia un vero tracollo, o una modifica sostanziale del dato di sempre che citavo prima. Certo poi sui social, nei gruppi di lettura o sulla letteratura, capita di fare un bel bagno di realtà. Per non dire in quelli di autori autopubblicati… Sarebbe anche curioso far leggere qualche mail di accompagnamento a manoscritti. In molti casi deve essere avvenuto qualcosa di misterioso durante le elementari…

8) L’editore dovrebbe assecondarlo?

La risposta è no, e non solo nel caso di un’editoria di progetto, specifica, come quella che tentiamo noi. Anche il grosso editore, un po’ come la TV generalista decenni fa, può avere una funzione. Milioni di italiani hanno imparato l’italiano in questo modo, dal Maestro Rai. Anche un libro che noi possiamo ritenere abominevole può essere quantomeno “fatto bene”, scritto decentemente, corretto, comunque non peggiorare la situazione. E sappiamo che la lingua è (neurone) specchio del pensiero: se non si hanno parole anche le idee saranno inafferrabili e si dissolveranno, perderanno consistenza. Forse è questo che mi preoccupa di più: la fatica a proporre, seguire e dibattere un ragionamento, a seguire la logica. Lo si vede in ogni discussione da bar, o da bar virtuale, sui social. Il paradosso è che molti che non sanno affrontare una discussione in realtà usano la lingua in modo più che sufficiente, o buono. Magari sono laureati. Come se il linguaggio avesse perso il legame con la rappresentazione della realtà per degradarsi a retorica, a falso sillogismo. Allo stesso modo non mi convince dare un’aura di sacralità alla lettura in sé, come se il lettore di principio fosse una persona migliore. Ci sono mille “dipende”: da cosa si legge, come… Anche in paesi dove si legge molto più che in Italia (quasi tutti), spesso milioni di persone leggono gli stessi libri. I “lettori forti” italiani sono eccezionali! E abbiamo una bibliodiversità invidiabile, anche se in Italia manca quasi del tutto un supporto da parte dello Stato. E in più, sempre rispetto a molti altri luoghi, i lettori italiani devono fare un salto quantico rispetto al vuoto in cui vaga culturalmente larga parte della società. (Grazie!)

9) Quali sono le prospettive del libro in un mondo supertecnologico e veloce?

Il futuro è lungo, ma il passato non scherza. Il libro per ora sta reggendo senza grossi problemi a fronte di tecnologie incredibilmente attrattive, e credo sia perché continua a offrire un servizio efficace per la sua funzione, ove questo accada. Ovviamente ha perso la centralità che ha avuto per secoli, ma bisogna aggiungere che era senza concorrenza (ed era per pochissimi). Vale per la narrativa, il raccontare umano, racconti o romanzo che sia (quel romanzo che continua a non voler morire), perché è insito nell’uomo, animale sociale, raccontare ad altri qualsiasi esperienza vissuta o immaginata, e credo anche per la saggistica, la trasmissione delle idee, anche se questa trae certamente maggiore giovamento dalla possibilità di aggiornarsi (aggiornamenti, bibliografia ecc.). L’ebook ha avuto la possibilità di sfondare, ma il semplice supporto digitale in sé non basta a relegare tra le cose passate il libro cartaceo. Semplicemente è una tecnologia basica, ma perfetta per il suo uso. Come la ruota, la adatti, ma come la fai “più ruota”? Come un coltello, non puoi farlo elettronico. Diverso è il destino di libri che possono essere usati diversamente e meglio: un dizionario è più pratico consultarlo su un computer, lo stesso una raccolta di leggi, un formulario, un’enciclopedia (almeno finché hai batteria). Diverso, e temo segnato, è infatti il destino dei giornali. L’informazione è così rapida e multiforme e disponibile in ogni istante, che stamparla su carta per usufruirne per poche ore anche a me, figlio di giornalista, ormai sembra uno spreco, una vecchia abitudine, quasi un vizio. Un romanzo invece lo riprendi in mano dopo anni: un libro del 1964 della tua libreria “funziona” esattamente come quello appena arrivato in libreria. E funzionerà per generazioni ancora. D’altra parte mi consola che oggi si realizzi – noi lo facciamo sempre – la versione digitale di un libro: vuol anche dire che pure nel caso di un piccolo editore, che può sparire in un battito di ciglia, il lavoro svolto resterà a disposizione. Quanto abbiamo già perso…

Piuttosto che dal mezzo in sé, e anche se credo che la lettura come il racconto non scompariranno mai, il libro oggi è minacciato dalla concorrenza, in termini di tempo dedicato da ognuno, ad altro tipo di canale/intrattenimento: digitale (quanto tempo passiamo sui social? Non è incredibile?), o dalla fruizione di contenuti altri: serie tv, film on demand, trasmissioni varie, intrattenimento da divano. Senza contare che si tratta di attività normalmente più passive rispetto a quanto richiesto dalla lettura, e lo sforzo anche minimo bisogna volerlo fare.

Più che della fine del libro, in realtà, mi preoccuperei un po’ più seriamente della prossima mancanza d’acqua, del collasso ecologico e climatico venturo. Perché ho la netta sensazione che anche chi se ne interessa con sincerità molte volte lo faccia solo con la ragione, non ancora con la pancia. Sporcare un ecosistema finito e non replicabile, terminare risorse non rimpiazzabili, dovrebbe essere un abominio morale, un tabù, qualcosa di impensabile. E siamo molto indietro su questo.

10) Qual è il titolo a cui sei più legato? E perché?

È una banalità dire che per un editore i libri sono tutti come figli, per cui come si fa a rispondere? In realtà credo sia un’attitudine salutare proiettarsi in avanti: di solito penso al prossimo libro, a quello che mi piacerebbe fare, anche se guardando indietro posso fare un sorriso. Risponderò quindi come un Giano bifronte, rivolto al passato e insieme al futuro: amo particolarmente un grande autore ceco, Jan Balabán, di cui ho già tradotto due romanzi, Chiedi a papà e Dove è passato l’angelo, e del quale spero vivamente di riuscire a tradurre tutti i racconti nei prossimi anni. “Sento” profondamente il suo sguardo sul mondo, le sue domande sull’esistenza, l’atmosfera che riesce a creare, i suoi personaggi incerti e dubbiosi, alla mercè di un mondo non accogliente, alla ricerca di qualcosa che forse non può essere trovato, ma sempre nella speranza di trovarlo: la speranza, vera essenza del percorso terreno dell’uomo. Sarà perché Balabán era della città da cui viene mia madre, una città particolare, Ostrava nella Repubblica Ceca: miniere di carbone, acciaio, sporcizia, mescolanza di genti. Sarà perché forse risponde a una mia domanda di… domande di senso, di spirito, pur inscindibilmente mischiato alla terra. Lo consiglio molto, forse non è adatto a tutti, ma potrebbe stupire. Diversi di quelli che l’hanno letto sono tornati a dirmi qualcosa, e li avrei abbracciati.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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