Evocare l’ombra

Evocare l’ombra

C’è una scena iniziale nel capolavoro cinematografico di Orson Wells, “Citizen Kane” (Quarto Potere) che avvia e sintetizza l’intera storia di un uomo che ha vissuto parallelamente a se stesso e che ha legato il suo destino a qualcosa accaduto nell’infanzia. La ricerca di “Rosebud” è il nucleo della vulnerabilità di Charles Forster Kane, magnate dell’editoria, potente personaggio della vita economico-politica americana e della vicenda narrata.

Cercando di penetrare il segreto di Rosebud si può accedere alla vera vita di quell’uomo.

Quella vita non aveva nessun rapporto con la mia esistenza visibile. Proseguiva il suo corso sotterraneo, imboccava strade sue e si riservava i suoi momenti. Guidavo in tangenziale, passeggiavo nella foresta di Fontainebleau, uscivo, al mattino, da un sogno che mi aveva riportato lontanissimo nel passato, ed era di nuovo estate, mi ritrovavo sulla spiaggia di Saint-Savin…

(da “Lora e l’ombra” di Pierre Jourde)

Ma che cosa succederebbe se quel nucleo di vulnerabilità riaffiorasse per una madeleine temporale e reclamasse una sua esistenza propria anzi, pretendesse che il suo creatore riplasmasse quella realtà riesumando vecchi fantasmi, tuttavia necessari per vivere?

Perché se Orson Wells aspetta la morte di un uomo per affidare la ricerca ad un altro uomo, Pierre Jourde incarica lo stesso protagonista di “L’ora e l’ombra” (testo tradotto da Gabriella Bosco e uscito per Prehistorica Editore) di evocare la sua infanzia, periodo in cui è custodito un sentimento a partire dal quale si è prodotto il doppio di sé.

La madeleine è Saint-Savin, una località balneare nel sud della Francia ricordata da Denise, compagna universitaria del protagonista del libro e doppio di Sylvie, quest’ultima, una bambina che l’uomo incontrò per la prima volta quando aveva quattro anni, spiandola attraverso una siepe che divideva le due case vacanze delle rispettive famiglie e di cui rimase l’incanto di un amore sospeso.

Se quel “posto delle fragole” di bergmaniana memoria riecheggia e divide l’esistenza del protagonista, Pierre Jourde compie uno di quei rari miracoli di sublimità letteraria in cui l’enigma perpetua una motivazione a essere, a esistere attraverso una densità semantica che appartiene al mito e col mito sommuove le fondamenta della verità.

Il protagonista del libro cerca la grazia in una catarsi che è dell’infanzia, l’arcadia originaria da cui si dipartono gli echi invertiti della salvezza. In effetti il movimento di quest’uomo va verso il riavvolgimento del tempo, mentre Pierre Jourde destreggia, con la raffinatezza di un demiurgo, più piani temporali necessari a mantenere il lettore in una condizione d’abbandono, in cui ogni approdo è illusorio.

Il sacrificio di un’adolescente, il doppio identitario, il tempo duttile, la vecchiezza, il mito, la poesia, l’inafferrabilità, sono solo alcuni dei temi contenuti nel testo.

Sin dal principio stravolta è l’alterità. C’è un “tu” che si rivolge a qualcuno che solo alla fine svelerà la sua identità e il senso delle parole. Perché i personaggi jourdiani cercano la voce interiore, la parola. Il protagonista ha bisogno di un “tu” per uscire da un ”io” e al tempo stesso farne il suo doppio, vagliandone ogni possibile conseguenza.

Saint-Savin, come “il posto delle fragole” è emblema di una sacralità inscalfibile che, conservandone la purezza inviolata nel tempo, prolunga la ragione stessa della ricerca del protagonista. Sacerdotessa del luogo è la piccola Sylvie, che molti hanno paragonato al personaggio di de Nerval, nella coltre di nebbia esistenziale che contraddistinse quell’atmosfera impalpabile, ma che a me piace appaiare alla Silvia leopardiana, mai avuta, mai raggiunta, mai compiuta.

Ma vi è qualcosa di ancora più inafferrabile alla fine di tutto, una metafisica che ha prestato la sua forma a una storia solo per liberarne la materia dai ceppi e innalzarsi invitta fino all’esatto compimento della logica del sublime.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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