La memoria del grande animale

La memoria del grande animale

È la storia di un’iniziazione, di un incantesimo, di un addomesticamento della morte che finisce di essere tale trasformandosi in un attimo di vita che dura per sempre.
Il giovane protagonista della storia, Francesco Colloneve, guarda il mondo dalla sua postazione privilegiata di sabotatore della morte. Ciò che avrebbe dovuto avere una fine cessa di colpo trasfigurandosi in un miracolo di bellezza eterna.
Per fare ciò Francesco ha bisogno di raccontare dando un ordine preciso alle cose e alle azioni. Una lista di passaggi da compiere, un cammino obbligato verso la conoscenza che gli permetta di tenere a bada la violenza del quotidiano e redigere un inventario della sua esistenza. Catalogare significa non soffrire; codificare vuol dire impedirsi di subire.
Gabriele Di Fronzo, l’autore di questa opera prima uscita per l’editore Nottetempo, cuce un tessuto narrativo forte, maturo, con lo stesso equilibrio e, parallelamente, con il medesimo spirito amoroso di Maylis de Kerangal nel suo “Riparare i Viventi”.
Quell’apparente distacco dalla partecipazione alle cose della vita è bisogno intimo di protezione, di rifugio, è consapevolezza profonda d’amore è necessità di creare il vuoto. La vita stessa nella ricerca costante di una fessura che ci permetta di esistere in pace con la nostra coscienza.
Perché Francesco Colloneve, che di professione fa il tassidermista, l’imbalsamatore di animali, ha solo un padre che lo ha vessato, che ne ha umiliato ogni desiderio, frustrato le aspirazioni. Ora deve prendersene cura perché l’uomo è affetto da una malattia che ha tarlato la sua memoria.
E in quei pieni e in quei vuoti che sono del padre quando parla e del figlio quando lavora, si snodano i punti focali del quotidiano di questi due personaggi.

Il vuoto inizia a realizzarsi così, dopo avere accettato che il contatto ordinario tra te e le cose è peggio che una graffiata di ortiche, ti metti dentro a quello che vuoi svuotare e prelevi quel che c’è e che ti sei imposto per il bene tuo che non ci sia più.

Il racconto dell’amore che si svuota di violenza e si riempie di pace è un afferrare il tempo e costringerlo a rivedere i suoi parametri. Illuderlo che in qualsiasi momento si sia pronti all’inevitabile.
I tentativi di colmare i vuoti di senso sono motivo dell’azione di questo giovane, che alla fine abiterà in un luogo simbolico come un grande animale.

Gabriele Di Fronzo affronta il dissipamento e il rimanente. Transustanzia l’energia vitale iniettandola in uno spazio in cui il ricordo sia memoria siderale. Per farlo l’autore struttura la storia in brevi paragrafi anatomici, in cui la sagoma umana sparisce, creando al contempo l’archetipo del rapporto padre-figlio. L’orgoglio stilistico diviene mezzo espressivo sincretico. La frase risucchia il ritmo alleggerendo il periodare. Certe atmosfere risiedono nella sparizione e non nell’ostentazione. Così Di Fronzo chiede al suo personaggio la rinuncia alla mondanità, all’effimero, da anacoreta. La casa diventa un’enorme carcassa di essere vivente perché, svuotata di vita, sia immolata sull’altare del tempo permanente.

Ho fatto esperienza che qualunque cosa non si voglia perdere va innanzitutto vuotata, bisogna fare spazio, sgomberare, portare via quello che c’era in precedenza, occorre sempre togliere: solo così. Ciò che altrimenti subito scomparirebbe, rimarrà nostro per sempre.

Come il desiderio di vita che nasce, come il tempo che non abbandona, come la memoria che non svanisce. 

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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