L’inutilità apologetica della solitudine

L’inutilità apologetica della solitudine

Una donna s’introduce nella casa di un uomo dopo che questi l’aveva intravista dalla finestra di casa sua qualche tempo prima. La donna entra nella camera da letto dell’uomo, si corica e muore.

Sembrerebbe l’inizio di una notizia di cronaca nera con elementi surreali e a tratti noir. È invece la scena iniziale di uno scritto di Sadeq Hedayat del 1936 dal titolo Bouf-é Kour (“La civetta cieca”). Pubblicato in passato da Feltrinelli e dalle edizioni SE, approda oggi presso Carbonio Editore in una traduzione di Anna Vanzan, per la prima volta dall’originale persiano. Le precedenti traduzioni erano state condotte sulle versioni inglese e francese. Anna Vanzan cura anche un’introduzione aneddotica molto utile per comprendere la personalità dello scrittore ed entrare nel suo mondo fantasmatico.

Considerato un Kafka iraniano, Hedayat condivide con lo scrittore ceco elementi compositivi e stilistici di notevole suggestione metafisica e psicoanalitica, nonché scelte esistenziali. Non ultima quella di chiedere agli amici di tenere una piccola produzione dei suoi scritti e di distruggere il resto.

La vita di Hedayat è sintomatica di una personalità critica nei confronti della società iraniana e in genere del suo tempo, troppo legata ai dogmi e improntata alla scarsa consapevolezza del sé. Il dolore che l’intensità dell’esistere impone agli esseri sensibili, che finiscono per diventare troppo consapevoli del loro destino, è la condizione prima del passaggio di Hedayat sulla Terra.

Sebbene abbia distrutto buona parte dei suoi scritti, ciò che rimane è sufficiente a riconoscerne il genio poliedrico. Grazie ad alcuni amici e traduttori le sue opere hanno conosciuto il successo mondiale e sono arrivate persino in Russia. Maxime Féri Farzaneh le ha fatte conoscere in Francia e da lì Roger Lescot le ha tradotte per le edizioni José Corti.

Ne “La civetta cieca” il protagonista oppiomane e alcolista è perseguitato da visioni che sembrano intersecarsi con piani temporali appartenenti a una vita precedente. Non potendo vivere nella città di Rey, a sud di Teherean, l’uomo si autoconfina nella sua stanza per fabbricare astucci portapenne e viene assalito da pensieri che collimano con l’esistere nel tempo e nello spazio ordinari, sino a distaccarsene inesorabilmente, cercando di sottrarsi, come colui che li ha generati, alle leggi impenetrabili del mondo. La causa scatenante è proprio l’apparizione fugace della donna dagli occhi neri attraverso la finestra della sua stanza. Perduta nel tempo e ritrovata proprio una sera, quando entra e muore senza averla potuta amare, l’uomo cercherà di dipingerla per conservarne la Bellezza e il mistero. In quel preciso istante, l’universo metafisico di Hedayat si manifesta disancorato da qualsiasi credo e pervaso da un pessimismo esistenziale che lo porta a pensare che la speranza non serva né in questa né in nessun’altra vita.

Alter ego dello scrittore, il protagonista del romanzo inizia a entrare nell’anima segreta delle cose del mondo e, come Faust, investiga i rapporti intrinseci che si nascondono dietro il visibile e il possibile. Su tutto aleggia il sentimento di essere solo di fronte alla morte e al nulla. Ad acuire questo malessere vi è la constatazione di vivere immerso in una società composta da coloro che definisce “feccia”, un informe convolvolo strisciante di esseri che rimangono appesi all’apparenza, all’emozione spicciola, trascinandosi in facezie e impedendo allo straordinario di manifestarsi nella vita di chi ne sia sensibile.

La vita, fredda e incurante, rivela la vera maschera di ciascuno, anche se ognuno di noi pare avere a disposizione una serie di maschere. Alcuni indossano sempre la stessa, che inevitabilmente si sporca e si riempie di rughe: sono i tirchi. Altri risparmiano le maschere per i figli; e ci sono anche quelli che cambiano maschera in continuazione. Tutti, invecchiando, scoprono di non avere più volti a disposizione, che l’ultima maschera rimastagli è ormai vecchia e consunta; ed è in quel momento, da quest’ultima maschera, che emerge il vero volto d’ogni individuo.

Hedayat, che passò la sua vita tra Teheran e la Francia, non si adattò mai alle dinamiche abusate del suo tempo. Frequentando la biblioteca dell’Alliance française a Teheran, si innamorò della letteratura francese, tedesca, russa e inglese.  Maupassant, Rilke, Dostoevskij, Sartre, Baudelaire, Woolf, Kafka, Schopenhauer, Schnitzler, Hesse, Cechov furono mentori e compagni di vita filosofica. Tradusse “La metamorfosi” in persiano, comprendendo, interpretando e interiorizzando i temi kafkiani. Curò le quartine di Omar Khayyām (1048-1131), astrologo, matematico, filosofo, poeta. Saranno questi gli ingredienti che abiteranno la profonda e folle corsa verso la morte di Hedayat. Rapito da un amore furente per la sua terra natale, combinerà ragioni e passioni per le religioni dell’antico Iran con il folklore, la magia popolare, il meraviglioso, l’insolito e lo straordinario.

Ma non si può chiedere a un essere sensibile fino all’inverosimile di continuare ad abitare su questa terra. La canna di bambù attraversata dalle correnti ventose non resiste alla loro energia distruttiva. Quando troppi significanti invadono il sensibile, il corpo fisico non può sostenerli e si disgrega.

Sadeq Hedayat lascia la Terra a soli 48 anni. Il 9 aprile 1951 si suicida nel suo appartamento parigino situato al numero 37 di rue Championnet, nel 18° arrondissement. Dilaniato da questo mondo assurdo e crudele, lascerà dietro di sé i pochi scritti che aveva condiviso con la sua ristretta cerchia di amici. Darà alle fiamme il resto, prima di lasciarsi uccidere dal monossido di carbonio.
Riposa nel cimitero del Père Lachaise.

Che m’importa se qualcuno leggerà questi miei fogli di carta oppure no? Io scrivo solo perché è un bisogno per me; sento l’urgenza, ora più che mai, di scrivere per comunicare questi pensieri alla mia creatura immaginaria, alla mia ombra, quell’ombra maledetta che si piega sul muro di fronte alla lampada per leggere attentamente, anzi, per ingoiare ciò che scrivo.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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