Anarchia di una mente autobiografica

Anarchia di una mente autobiografica

Questa è un’autobiografia. Questa non è un’autobiografia.

Si gioca su un’apparente contraddizione la stesura di “Autobiografia di mia madre” di Jamaica Kincaid (traduzione di David Mezzacapa – Adelphi Edizioni), ma sarebbe più corretto dire che l’intera bibliografia della scrittrice antiguo-barbudana collimi con una divergenza analogica.

Ciò che è vero e ciò che non è vero non interessano a Kincaid, non è compito della letteratura stabilirne i confini. È un’illusione persino la differenza tra letteratura finzionale e cronistica. È affare più da prontuario che da idioma dell’esistenza.

È per questo che la scrittrice costruisce una trabeazione che sopporta un equilibrio instabile, com’è l’identità di Xuela, la protagonista del romanzo.

Siamo nella Dominica, a nord del Venezuela e la piccola Xuela parla in prima persona la sua lingua, a metà tra l’inglese e il patois francese, misura esatta di ciò che si agita nel suo spirito.

Mia madre è morta nel momento in cui nascevo, e così per tutta la mia vita non c’è mai stato nulla fra me e l’eternità.

Da quella dichiarazione ne scaturisce l’intento di una ricostruzione non risarcitoria. Xuela ha infranto gli argini della sua personalità, non ama e non amerà mai, non conoscendo amore, attraverso la distanza, esplorerà tutto ciò che la domina e l’annienta.

Jamaica Kincaid articola la sua lingua non collocando i verbi come per la struttura classica della frase inglese. Non è un vezzo ma una necessità espressiva. Ogni parola, ogni segno d’interpunzione hanno un forte carattere simbolico, scandiscono una lingua dura ma mai cinica.

Xuela si annusa continuamente e annusa gli altri, il mondo che la circonda. Li descrive, li assapora e sono i cinque sensi a esplodere nella loro sfolgorante malia.

… c’era il verde delle foglie, l’esplosione rossa dei fiori sulle poinciane, il frutto di un giallo bilioso dell’acagiù, il profumo del lime, l’odore delle mandorle, il mio alito che sapeva di caffè, la gonna di Eunice che mi volò in faccia col vento, e dalla quale si sprigionarono gli odori che le venivano di fra le gambe.

Xuela conosce esplorando carnalmente. Non si limiterà a sposare un collega del padre che seguirà docilmente, ma avrà altri incontri. Resterà incinta e si libererà di tutta la vita che le si svilupperà dentro, perché lei è nata senza vita e non potrebbe essere in grado di generarne.

Il tempo dell’esistenza è per lei interruzione tra due morti, ma non c’è nessuna forma depressiva nella visione di Kincaid. Anzi, l’energia vitale che accompagna la protagonista dell’Autobiografia la porta a superare le etnie e le culture, in lei scorre una forza primordiale che si è originata ancora prima della vita, come un ricordo ancestrale inciso e continuamente ripercorso, e per questo senza soluzione di continuità.

Da uno scrittore originario di un paese colonizzato ci si aspetta una qualche forma di elaborazione di una cultura ibrida in grado di coniugare due visioni. Kincaid prende le distanze anche da questo. In nessuna parte del romanzo allude a tale possibilità.

Io appartengo ai vinti, appartengo agli sconfitti. Il passato è un punto fisso, il futuro è aperto a tutte le alternative; per me il futuro deve restare capace di far luce sul passato così che nella mia sconfitta possa nascondersi il seme della mia grande vittoria.

Xuela accetta la sua solitudine da e per sempre. E se l’accettazione è conferma della sua unicità, narrare è dare voce a chi non ha potuto parlare, sua madre, i suoi figli, il loro racconto mancato. Tutto ciò che la donna non si è concessa di essere e di diventare.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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