Lavare via la colpa

Lavare via la colpa

Immaginate che l’assassino di vostra madre esca di prigione dopo diciotto anni di reclusione. Immaginate di ritrovarvelo davanti durante un evento in onore dell’uscita del vostro libro, scritto a seguito dell’improvvisa morte di vostra figlia. Pensavate che quell’uomo fosse stato destinato all’oblio, che la vostra vita sarebbe trascorsa nel tentativo di dimenticare. Adesso è davanti a voi, il suo viso dentro al vostro. Il suo passato vi appartiene e ora anche il suo presente. È un giardiniere, ha ricominciato a vivere.
Adesso mettetevi nei panni di quest’ex detenuto, nella sua mente criminale. Tra le sinapsi che hanno processato i suoi piani omicidi. Lo accompagnate nella sua quotidianità di uomo libero, perché tale vuole essere, vivendo nel più completo degli anonimati, in una mitezza da anacoreta.

Due esistenze che s’ignoravano formano un animale unico, lento, antico, in agguato. Un silenzio interminabile consuma gli attimi dilatati nel chiasso degli intervenuti. La scrittrice e il giardiniere non sentono nulla, solo l’algido istante prima dell’imprevisto.

Sophie Daull costruisce un dispositivo letterario implacabile in cui si scopre la violenza delle parole nel suo ultimo libro dal titolo “Il lavatoio”, tradotto con sapienza e oculatezza stilistica da Cristina Vezzaro e pubblicato dall’editrice Voland.
“… interrogarsi su cosa sia a determinare ciò che si diventa e sull’eventualità, in ultima analisi, che il rimorso possa sfiorare la coscienza di un uomo”. Sono parole della traduttrice, che firma la nota finale del testo argomentando le scelte di traduzione di una lingua tagliente e furiosa, di una lingua che fa male anche quando non ha quest’intenzione.
In apertura un passaggio dalle “Eumenidi” di Eschilo: “E sulla vittima nostra/ecco questo canto: delirio,/follia che distrugge la mente,/inno delle Erini/che l’anima lega,/inno senza cetra che i mortali dissecca”.

Le intenzioni sono chiare: il lavacro delle spoglie mortali e la catarsi attraverso la lucida follia della colpa.

Nella prima parte Sophie Daull è attrice a due voci. Scrittrice ed ex detenuto parlano lingue diametrali di capitolo in capitolo e non a caso sono stati scelti due caratteri tipografici differenti a risaltarne l’alterità. I due si presentano come personaggi di una tragedia greca che affonda nell’origine del mondo la propria potenza evocativa. Parlano ciascuno nel proprio spazio separato dalla geografia e dalla quotidianità. Trent’anni per entrambi, cinque giorni per l’ex detenuto, un anno per la scrittrice. Poi, il cambio. L’incontro a Nogent-le-Rotrou, nel buco della Francia. I servitori della verità allineano coscienza e memoria. L’animale e la preda.

Non si può sperare in un finale migliore di quello previsto dalla scrittrice. Il dolore di un solo essere umano può divenire dolore universale e la letteratura compie il miracolo. Perché la morte non sbaglia bersaglio e non si tratta della fine fisica ma di quella morale, esistenziale. Fino a che punto ciò che si diventa è esattamente ciò che si voleva?

Cerco di far affiorare alla superficie della quotidianità gli enigmi che permangono, valorosi, irriducibili, nell’archeologia del genere umano.

C’è chi evita di addentrarsi nella conoscenza di sé, non è dei personaggi di questa storia senza amore anche quando l’amore c’è.

Ero stato incatenato a una realtà millimetrata e insignificante, una quotidianità anestetizzante con certificato di conformità per un piano di rimborso del debito, per un riscatto a basso costo. Evidentemente, però, avevo dimenticato di firmare una clausola nascosta, un comma segreto. Delle ombre mi porgevano la penna, ma il paragrafo era indecifrabile.

Qual è la clausola nascosta? Lascio ai lettori la scoperta destabilizzante e magica della fine. Basti su tutto la lingua oltre la trama. Una lingua liturgica e ossessiva, umbratile e suadente che sembra raccontare al di là del racconto, dire al di là della lingua, parlare nel silenzio.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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