Spirdu e la maledetta memoria degli organi

Spirdu e la maledetta memoria degli organi

Diu vulinùsu. Diu cencioso. Diu dei Puci guasto e abbandonato dalla salute angelica. Diu c’a carne dormigliona della luna di Butera. Butera arrugginita di carne, Butera deformata dalle frane di nessun diu, Butera burrone dell’animalesca gelosia degli insù, Butera carne affumicata e penzolante di due divinità senza corona di spine e senza cuori tagghiàti.

L’anima esoterica della Sicilia, coi suoi riti allegorici, i suoi eterni ritorni millenari e il crepitare di personaggi del mito oscuro, è crogiuolo di bellezza e perdizione. È talmente viva la palingenesi siciliana che nei suoi cicli ineluttabili esplora l’abisso e spesso se ne viene fagocitati. Parla per enigmi la Trinacria, come il vecchio Tiresia, e occorre un Edipo a purificare il miasma. Nel gotico letterario questa terra trova una delle sue coloriture più fulgide e in Orazio Labbate un magnifico interprete d’indicibili orrori e subitanee rivelazioni apocalittiche.

Nel capitolo che chiude la trilogia del gotico siciliano, dopo “Lo Scuru” e “Suttaterra”, “Spirdu” (questa volta con Italo Svevo Edizioni) sugella un patto ancestrale con l’origine del Male.
Se come diceva Jorge Luis Borges, ogni luogo è archeologico, in Butera – cittadina nissena – Labbate focalizza l’essenza stessa della perdizione maligna. Ogni anfratto del paese è covo incrostato di maledizione, che ha anche il suo simbolo nella chiesa di San Rocco, scenario finale esiziale. Benignità specchio di malvagità e un’iconografia religiosa che si trasforma nella più luciferina delle apparizioni.

Persino la natura incarna la perdizione e l’upupa è messaggera del mondo invisibile.
Scardina i confini regionali lo scrittore, annettendo all’isola un territorio ancora più vasto dall’altro lato del mondo. Milton, in West Virginia come la provincia nissena con la sua necropoli. Li si sente sollevarsi questi corpi, tornare come per uno stravolgimento dimensionale in cui Labbate utilizza l’arma della parola antica e la mescola alla grande tradizione letteraria in una riapparizione bufaliniana, che coincide con un retablo consoliniano, ma che crea nuovo linguaggio narrativo.

I personaggi principali della storia, Kathrine Pancamo – detective del Dipartimento di Polizia di Milton – e Jedediah Faluci – esorcista buterese -, sono solo l’apice di una geremiade di figure in carne ed ossa e di trasfigurazioni spiritiche. Parte di esse le abbiamo già incontrate nei due libri precedenti e trovano solo in “Spirdu” la loro nemesi.

Di particolare pregio il capitolo riguardante l’incontro tra Kathrine Pancamo e Christobel Hightower, badessa dell’orfanotrofio Saint Judith’s. Si tratta di un vero e proprio pezzo di teatro, in cui le battute scandiscono un’era antropologica e risultano gravide di profezia e mito.
Questo è anche un romanzo sull’identità e sulla ricerca spasmodica di un’origine. La detective dovrà intraprendere un viaggio al contrario per scoprirsi e ancora una volta la chiave di tutto sarà il più antico dei sentimenti, l’amore, a sciogliere i legacci del destino.
Ogni espressione gergale contenuta nel libro non è un mero esercizio di stile ma dà sostanza alla narrazione, conformandola a immagine e somiglianza del mistero.

Non sièmmu, noi tutti, tutti chiddi ca su ccà, in grado di cancellare la maledetta memoria degli organi, il dimenticato corpo del morto, la preminenza abusiva degli organi stutàti rispetto all’amore incurabile.

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Scritto da
Angelo Di Liberto
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