La cucina editoriale (XII parte)

La cucina editoriale (XII parte)

Al maestro rubai altri segreti, come quelli delle proporzioni degli impasti e da lì imparai a leggere in mezzo agli ingredienti dell’editoria e a capire che l’editoria è un mestiere in perdita. Sapete dove sta il guadagno?

Faccio una premessa.
Quattro anni fa, insieme ai miei soci ci siamo chiesti se valesse la pena continuare a fare gli editori per dei libri che, anche se fortunati commercialmente, non portavano guadagni bastanti alla sopravvivenza.
La risposta la troverete tra qualche riga.

Gli amici e colleghi non prenderanno molto bene queste mie parole, oppure diranno che mi sono fumato il cervello. I più attenti alle sofferenze comuni forse riconosceranno che qualcosa di vero probabilmente c’è, ma andiamo per ordine.

La mia fortuna è che la cucina mi offre un metodo di analisi che differisce per punti di vista, ricerca continua della scorciatoia (in cucina occorre dover fare bene ma ottimizzando i tempi e le risorse) e realizzazione del piatto in virtù del cliente che si ha davanti. Quest’ultimo punto vale per tutte le categorie commerciali.

Sapete, quando si realizza un impasto, dolce o salato che sia, il risultato finale è sempre frutto di una vera e propria frazione e del rapporto tra gli ingredienti. Lo stesso vale anche per un cocktail. Quindi, giorno dopo giorno si scopre che l’aritmetica che si studia in tenera età non solo è utile ma è anche alla base di tutto ciò che ci riguarda e che facciamo.

A forza di vedere passare rendiconti complicatissimi scopro un elemento banale, ma non scontato, che sta alla base delle speranze di ogni editore.
Le tirature di stampa di qualsiasi libro stanno nella frazione di 3/3. Quello che si vende di ogni singolo libro equivale a 1/3. Il denominatore indica la quantità di libri utili alla capillarità di distribuzione necessaria, ma costituita dal reale dato di assorbimento. Mi spiego meglio con un esempio.
Se il dato di prenotazione di quel libro è di 350 copie ma io ne stampo 2000 anziché 600, andrò incontro a seri problemi, perché non solo ne venderò probabilmente 200 ma ne avrò 1800 fermi a occupare spazio, oltre a un costo di stampa assai superiore. Ovviamente l’editore, l’autore e la filiera del libro cercheranno di vendere quel testo, ma non nascondo che con una media di 160 nuovi libri immessi nel mercato ogni singolo giorno, qualche problemino c’è!
L’editore valuta sempre i dati reali e opta per una scelta adeguata; però quello che scopro da vari test sui rendiconti effettuati su diversi libri (fortunati e non), è che per vendere 1/3 dei libri l’editore obbligatoriamente sia incastrato in quel denominatore dei tre terzi. Vale anche per le ristampe.
Nel momento in cui un libro è richiesto dalle librerie perché se ne parla, escono recensioni, il passaparola convince più lettori ad acquistarlo e saranno necessarie delle ristampe. Ma non significa che ogni copia stampata sia venduta anzi, sembra incredibile ma ci si ritrova sempre dentro quella frazione. La frazione di 1/3 (parte venduta dei 3/3) vuol dire che il libro copre appena i costi e non c’è utile.

Volete un esempio?
Libro da 144 pagine con prezzo di copertina a 14€, costo di stampa 1,75€ + costo di lavorazione 1,50€ + diritti d’autore 1,15€.
600 copie di questo libro hanno un costo di stampa di 1050€ e vendendone 200 copie l’editore recupera 880€ di costi circa (quindi meno del solo costo di stampa) e un utile quasi inesistente. 1120€ derivanti dallo sconto alla distribuzione del 60% del prezzo di copertina, ricordate qualche articolo indietro de La cucina editoriale? Se stessimo a guardare la proporzione della singola copia l’editore avrebbe un utile di 1,20€ per ogni singola copia venduta, ma poi la questione si complicherebbe per i termini di pagamento a 180gg. e per tutta la questione del recupero crediti che in Italia è il problema numero uno.

La domanda iniziale era: dove sta il guadagno?
Il guadagno non c’è e non è questione di vendere più copie! È vero che un volume di venduto maggiore incrementerebbe leggermente la forbice di guadagno, ma non in modo determinante, perché con l’aumentare delle copie lieviterebbero anche i costi. Il guadagno se c’è è dovuto a una quantità di libri venduti che non è propria della piccola editoria, credo nemmeno della media. Il guadagno se c’è può essere solo su titoli che in catalogo vendono sempre, magari poco per volta ma sempre e quindi dipende dal catalogo, in particolare dalla qualità dei titoli del catalogo.

Il guadagno sta nella qualità di ciò per cui si lavora. Vale nella cucina e forse ancora di più nell’editoria. Occorre fare libri che siano capaci di vendere anche a distanza di anni, curati e fatti bene.
In fin dei conti noi ci formiamo attraverso ciò che facciamo ogni giorno, con la qualità delle parole che usiamo leggere e con il cibo che ci sostanzia. Abbiamo scoperto, o per meglio dire ci siamo accorti, che la vita è breve ed è necessario (parlo per me e per i miei soci con i quali condivido tutto ciò) lavorare con materie prime preziose. La qualità della nostra vita dipende dalla qualità di ciò che facciamo quotidianamente. Un editore deve (o dovrebbe) contribuire alla formazione culturale di se stesso e dei lettori del paese dove opera e lavora. Un cuoco dovrebbe avere a cuore la salute dei propri clienti perché dovrebbe essere egli stesso “cliente” dei propri principi.

Detto ciò vi domando, ritenete che il sapersi accontentare sia un difetto o un pregio?

Continua…

Leggi l’XI parte dell’articolo

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Scritto da
Fabio Mendolicchio
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